domenica 17 novembre 2013

Nevica (lei)

Forse non lo dovevo invitare per il caffè. Chi beve un caffè alle 23.00? Va beh, ho fatto la figura di quella che ci sta, ma mi piace, sembra che si diverta a permettermi di gestire il gioco. Gioco in casa, siamo nella mia città, e lui sta come rispettando la mia autorità; nevica, fa freddo, chi cazzo ha mai visto nevicare l’11 ottobre, è bene che cammini veloce. In effetti non ho mai camminato così veloce, e stasera non fa eccezione, ma lui sembra voler rimanere indietro, chissà che sta guardando, il maialino che ho trovato, “ti piace quello che vedi?”, dio quanto vorrei chiederglielo.
Arrivo a casa ed apro il cancello, la corte la attraverso, questa volta sì, velocemente, non mi fa piacere che qualcuno si impicci nei fatti miei. Entro rapida, non gli rivolgo la parola, chiuda lui la porta, e speriamo non la sbatta. Devo salire solo all’ammezzato, ma non voglio correre, voglio che si goda la scena, e indugio sull’ultimo scalino; proprio non resisto e devo girarmi a guardarlo, devo vedere che effetto ho fatto…l’effetto che volevo.

Apro la porta facendo un po’ di casino con le chiavi ma alla fine sto portando un uomo nel mio spazio, e la cosa mi piace il giusto, entro e non faccio neanche in tempo ad accendere la luce che il ficcanaso è già entrato e butta lo sguardo di qua e di là, è qui che decido di aggredirlo, lo bacio mentre chiudo la porta alle sue spalle e poso le chiavi nella ciotola, cazzo non deve andare in giro a ficcanasare. Succede qualcosa di strano, il mio bacio voleva essere freddo, tattico, logistico, mi serviva per bloccarlo, e invece eccomi qui, un brivido mi sale, leggero, sulla schiena e il sangue mi abbandona le gambe, ho quasi paura di accasciarmi, ma che cazzo mi sta facendo questo qui. Mi scappa un sospiro incredibilmente lungo, e sento che se ne accorge benissimo, sta gongolando il maledetto, ha capito di avermi in qualche modo stregata. Lo porto sul divano e mi inginocchio accanto a lui, è basso, e anche da seduta voglio dominarlo. Continuo a baciarlo e non riesco a trattenerlo, non so come faccia a capire come voglio essere baciata ma non mi importa, devo toccarlo, ho bisogno di accarezzargli il collo, il viso, il petto; sospira, fa un respiro incredibilmente profondo, gli piace quello che succede, o forse si sta annoiando? So di essere lenta nel fare le cose, ma se trovo chi sa riempirlo, voglio godere di tutto il mio tempo, e questo stronzo ci riesce e non capisco come, così presto. E’ qui che mi passano le paranoie sul cosa gli stia piacendo o meno, finalmente mi mette la mano sul seno e non ha alcuna fretta, ma una decisione che mi toglie il respiro, mi prende forte per le braccia e mi alza, comincia ad usare la lingua, il suo bacio diventa profondo e in qualche modo sto perdendo il controllo della situazione, e non me ne frega poi così tanto, anche perché non pare prepotente, sembra quasi che ci si stia venendo incontro. Lo voglio sentire, la giacca gliel’ho già tolta, deve sparire quella camicia, voglio essere toccata, voglio essere spogliata, perché non lo fa? Gli sbottono la camicia, un bottone alla volta, non mi inceppo mai, i polsini li aveva già aperti lui. Butto la camicia da qualche parte e finalmente ne sento il calore. Mi palpa il seno destro e con la sua mano destra mi slaccia il reggiseno, sfila il vestitino subito dopo e capisco cosa stesse aspettando: le sue mani sono ancora un po’ fredde, peccato si sia posto questi problemi, dio quanto voglio le mani fredde di un uomo su di me.  Sembra decisamente contento di quello che ha trovato, e si premura subito di mostrarlo, mi bacia il seno, mi lecca il capezzolo sinistro e lo mordicchia leggermente, le sue mani scendono sul mio culo e finalmente lo stringono come volevo “la senti la palestra?”, ma perché oggi vorrei essere porca in questo modo così arrogante? Riesco a mordermi la lingua anche questa volta. Torna a baciarmi ed appoggiarsi a me, sento che è già bello duro e ho voglia di vederlo, ho voglia di averlo, mi sta lentamente abbassando i leggins e le coulotte che ho scelto oggi, muoviti dai, voglio spogliarti! Me li abbassa completamente, devo riuscire a togliermi gli stivali senza interrompere il flusso di ormoni…mai riuscito un capolavoro del genere: c’avrò messo 3 secondi, e so di essermi mossa alla grande. Gli slaccio quella maledetta cintura e sbottono i jeans. L’avevo già sentito da fuori, non voglio ancora scartare il mio regalo e gli lascio i boxer, ma adoro sentire quanto gli stia piacendo quello che sta succedendo. Basta, mi spoglio, speriamo faccia lo stesso, lo voglio dentro di me!Sono piuttosto brava a fare queste cose e anche lui si spoglia con un movimento solo, non si blocca, non si inceppa, massimo 3 secondi e sono completamente nuda davanti a lui, si è tenuto i boxer. Sei uno di quelli che vuole essere spogliato eh?! Benissimo, mi piace scartare i miei regali, gli abbasso i boxer e glielo prendo subito in mano, pulsa, è caldo, è duro, non ho alcun bisogno di riscaldarlo, ma un po’ ci voglio giocare lo stesso…Lascia scivolare i boxer e finalmente è nudo, mi diverto a torturarlo ma sto torturando me stessa, lo voglio dentro di me, mi sposto verso il divano ma mi prende di forza e si siede lui, vuole essere cavalcato eh!? Bene, mi piace il comando, mi è sempre piaciuto, mi siedo su di lui e vedo che non fa niente per trovare la strada giusta, vuole che lo faccia io; molto bene, lo prendo in mano e lo conduco dove voglio, sono già eccitata, so benissimo che il corpo non opporrà nessuna resistenza all’ospite, lo sento scivolare dentro di me, una sensazione di calore mi avvolge, non aspetto, non assaporo il momento, comincio subito a muovermi, lo voglio sentire più dentro, voglio sentire dove arriva, voglio guardarlo godere. Scelgo il mio ritmo, vado avanti e indietro col bacino, mi cinge i glutei con le mani, corregge alcuni movimenti, ok, non così indietro, ok, più su, come cazzo è possibile che io goda di più come mi ha spostato lui? Perché non riesco a sentirmi dominatrice ma solo una maledetta metà di un intero che sta funzionando come un meccanismo perfetto? Amo le mie tette, so quanto siano belle, gliele muovo a un centimetro dalla faccia, le deve cercare lui; non se lo fa neanche chiedere, prende subito il mio seno destro con la bocca, succhia il capezzolo, lo cinge con la bocca e gioca con la lingua, mi sta facendo impazzire; accelero il ritmo, voglio godere, voglio godere subito, devo venire, volevo torturare lui e sto torturando me stessa, mi aiuta con le mani sui glutei, mi sposta su e giù come vuole lui e continuo a non capire come cazzo faccia a farmi arrivare a questo orgasmo lui, scegliendo il ritmo per me, piuttosto che io scegliendolo da sola, eccolo, arriva, mi sento bruciare e poi ghiacciare, con un brivido mi accascio sulla sua spalla non sapendo neanche quanti santi ho invocato. Oddio questa cosa non può finire, non mi voglio neanche riposare, mi alzo e lo lascio sfilare fuori di me, lo voglio in camera, mi alzo, gli prendo la mano e lo porto dietro di me fino in camera. Mi sdraio sul retto, mi sto per rialzare, vorrei sentirlo in bocca ma mi sovrasta e mi bacia, scende subito a baciarmi sui seni, sulla pancia, e arriva dove speravo arrivasse, comincia a leccarmi con il piglio di chi ha deciso di farmi impazzire, eppure pare che faccia l’unica cosa che sembra essere giusta al momento, sembra come se non potesse non essere così, non ha cominciato neanche da 10 secondi e io già sto impazzendo. Perché questo maledetto mi capisce così, mi inarco leggermente e capisce di andare più profondo, lo cingo con le gambe e mette più vigore nella spinta di lingua, mi sento morire, questo qui mi farà impazzire tutta la sera, già mi arrivano i primi brividi, i primi scarti, continua costante nella sua tortura e io mi vergogno come una ladra a lasciarmi andare così, starò facendo una figuraccia ma mi viene spontaneo, lo prendo per i capelli, gli cingo la testa con le gambe, che non si sogni neanche di spostarsi da dove si trova, che non pensi di cambiare qualcosa, sto impazzendo, non riesco più a controllare gli spasmi del mio corpo, né quelli della mia lingua, non so neanche che cosa sto dicendo ma non è importante, non sono io che me ne fotto, è che non importa, sento questo momento come il perfetto funzionamento di una cosa sola; i miei spasmi sono diventati incontrollabili, sento quel calore spaventoso e quel brivido fortissimo sulla schiena, l’orgasmo arriva, tremo, mi alzo, non riesco neanche a stare sdraiata, mi aggrappo alla sua schiena per non cadere. La deve smettere e la smette, non lo reggerei ancora, ma lui è ancora lì, teso, duro e con chissà quali progetti in testa, ma sembrano gli stessi miei: lo voglio ancora dentro di me, non glielo chiedo, non glielo dico, non glielo faccio capire, mi spinge sul letto e subito mi penetra, fa un po’ di resistenza ora ma entra e scivola dentro quasi senza difficoltà, tutto sembra diventato un po’ più frenetico ora, i miei tempi flemmatici non so neanche dove siano finiti, sta facendo dentro e fuori facendomi impazzire, oddio che serata, chi se lo sarebbe aspettato, lo prendo per i glutei e lo tiro dentro di me, quando affonda voglio che arrivi fino in fondo, con le gambe gli cingo le sue, cazzo lo voglio sentire attaccato a me con ogni parte del mio corpo, ormai penso di avere la febbre a 45 gradi, non capisco più niente e non mi sento parte di questo mondo ma solo di qualcosa di perfettamente sincronico, di un unico grande orgasmo che ci unisce, comincia ad ansimare e lo sento sempre più rapido, io ormai non riesco neanche più a capire quanti e quali siano i miei orgasmi, so solo quanto sto godendo in questo momento ed è allora che esce da me e comincia a masturbarsi, in ginocchio sul letto, sta venendo, ma voglio essere io a farlo, lo prendo subito e lo masturbo, non ci metterò la bocca, ma lo voglio sentire addosso, voglio sentire quel caldo su di me, bastano pochi secondi per farlo venire, me lo stringo al seno e sento quella meravigliosa sensazione di calore che mi pervade, trema, si inarca, e alla fine mi crolla addosso. Dopo qualche secondo abbracciati mi bacia dolcemente e mi guarda, incrociamo lo sguardo, non diciamo niente, sappiamo già tutto; rimette la testa sulla mia spalla, cominciamo a giocare con le mani l’uno dell’altra, non ho idea di quanto tempo sia passato da quando l’ho conosciuto, da quando gli ho offerto il caffè, da quando ho chiuso la porta di casa, né quanto ne passerò così, abbracciato a lui, so per certo che la serata non è finita e che un’intesa del genere non si spegnerà con uno “ciao”. Ricominceremo tra un po’, quando non sarà il momento mio, o suo, quando sarà il nostro.

Nevica (lui)

Quando cazzo mai ha nevicato l'11 Ottobre in questo posto? Mi ha parlato di un condominio, di solito i condomini sono pieni di vecchi che tengono i riscaldamenti a palla, speriamo, sto congelando. Cammina decisa ma non veloce, ha un passo che ha quel quid della leonessa che percorra la savana sapendo di poter scegliere la preda che vuole, detta il passo, forse ostenta sicurezza, forse ci tiene a far notare come ancheggi con la sua falcata lunga, sicura e lenta, di quella lentezza che è pura sensualità. Toglie la mano dal guanto stringendo il medio tra i denti, non ti togli un guanto così quando hai l’altra mano libera, il suo gioco è già cominciato. Prende le chiavi, apre il cancello, nel cortile accelera il passo, apre la porta del condominio e se la lascia dietro senza voltarsi, mi occupo io di chiudere, vuole essere vista salire le scale? Solo l’ammezzato. È quando sul pianerottolo svolta a sinistra che getta la prima occhiata rivelatrice della sua piena consapevolezza del fatto che il “caffè da me” sia solo un modo di dire. Gira la chiave nella porta ed apre, non mi fa entrare, vuole subito chiudere la porta senza che io mi avventuri chissà dove. Ha chiuso, appoggia le chiavi, tutto sembra durare un’eternità con la sensualità che mette nel fare qualunque cosa; a chi non ne conoscesse la malizia potrebbe sembrare solo tremendamente pigra o tremendamente stanca, si è tradita solo in pochi dettagli, ma l’ha fatto, per tutta la sera, esattamente quando voleva che si notasse.
Mi bacia lei, il caldo dell’appartamento non arriva tanto velocemente quanto quello del suo corpo abbracciato al mio. Bacia lentamente, si abbandona, sento quasi di doverla sostenere da quanto trasporto mi trasmette; cazzo sempre stato io tipo da “vieni qui che spacco tutto” e ora arriva questa a farmi sentire ogni singolo momento dell’essere noi. Si sposta lentamente ma non mi molla, non ha ancora aperto la bocca, mi porta sul divano, si accovaccia accanto a me, comincia a stuzzicarmi con la lingua, la usa come chi pare aver trascorso una vita a torturare i propri amanti, si fa avanti e si ritrae, gestisce ogni ritmo come vuole, ed è un ritmo lentissimo, una tortura fino a quando non riesco io, a mia volta, ad abbandonarmi a lei, il tempo si ferma, mi sembra di vedere la scena da fuori in bullet time, mi richiama al momento la sua mano, mi sbottona la giacca, sposto la schiena per toglierla, faccio lo stesso con lei, è in ginocchio sul divano, accanto a me. Decido io di alzarmi, il caldo ormai ha riportato in vita le mie mani, posso toccarla senza farle prendere un colpo. Le alzo il vestito, le slaccio da sotto il reggiseno, geme a sentire le mie mani sulla schiena e il suo gioco con la lingua sembra perdere quella sicurezza sadica iniziale e cominciare ad essere più spontaneo ed inibito, forse avviene qualcosa in questo momento, lei sembra superare il suo personaggio ed abbandonarsi completamente a se stessa, ed a me, io lascio da parte ogni pensiero sul come andrà, come sarò, cosa farò, per un istante sembra di trovarsi in un’altra dimensione, si eccita, mi sbottona la camicia con la solita grazia felina ma una fretta ben diversa, la toglie, la butta da qualche parte, le sfilo il vestito, nuda è meravigliosa come avrei pensato fosse quando l’ho vista; sento le sue mani su di me, mi stringe a sé, nel baciare piega la testa quel tanto che mi fa decidere di girarla di schiena, mi appoggio a lei mentre posso con le mani esplorarne i seni e sprofondare nel suo profumo, si inarca quando le bacio il collo, accompagna la mia mano via dal seno per portarla più giù, non fa tutto il tragitto da sola, o è un po’ di pudore o vuole che sia io a farmi strada tra i leggins; il suo lentissimo ritmo travolgente mi ha ormai completamente catturato e non glieli strappo via come un orso, la accarezzo, da fuori, poi lentamente le abbasso i leggins e le coulotte che ci nasconde sotto; sposta la sua mano sinistra a sentire la mia eccitazione; la rigiro, la bacio, lei comincia a slacciarmi la cintura; ormai le ho abbassato sia i leggins che le coulotte, decide di spogliarsi, non so come cazzo faccia, ma toglie gli stivali riuscendo a non interrompere niente di quello che stava facendo, mentre si piega perdo le mie mani tra i suoi seni, vorrei spogliarmi, ma voglio che sia lei a farlo. Torna su a baciarmi, non so come ma mi capisce, mi sbottona i jeans, si piega per spogliarsi completamente, faccio lo stesso, resto coi boxer. Quando torna da me sembra quasi delusa e risolve la situazione da sola, l’intera scena vista da fuori mi avrebbe già mandato al manicomio ma nella specie di trance in cui mi ha portato vivo il tutto come fosse tutto un puzzle che pian piano si completa. Si avvicina al divano, decido di sedermi io, mi si siede sopra, non ho idea di quanto tempo sia passato dal momento in cui mi ha offerto il caffè o da quando abbia chiuso la porta di casa, mi sembra l’eternità più eccitante possibile, adesso prende il comando, non fugge dagli oneri della posizione che ho scelto per lei; lo prende in mano, quasi a controllarlo, e fa in modo che io sia dentro di lei, sento quanto avesse lavorato di immaginazione e di contatto e le scivolo dentro trovando meno resistenza di quanta avrei pensato, sembra subito impazzire; la mia pantera cambia adesso, il ritmo flemmatico e conturbante di tutta la serata lascia spazio alla versione hard della stessa donna, mantiene una fluidità, una sensualità senza precedente, scandisce un ritmo più veloce di quello che mi sarei aspettato ma la tortura è la stessa, ed è sempre più eccitante, le scivolo dentro e fuori sentendola gemere e trovandola muoversi di una spontaneità travolgente. Avvicina i seni alla mia testa, lo fa apposta, vuole che ci giochi con la bocca, non avevo scelto la posizione a caso. Al tatto è calda, a sentirla con la lingua è bollente, le mie mani la accompagnano, posate su un culo che fa pensare alla palestra solo ad avvicinarvisi, ma il ritmo è il suo, la sento accelerare, la sento sospirare, invocare divinità, perde ogni tipo di flemma e si scatena, non riuscirei a starle dietro senza accompagnarne i movimenti con le mani, entro dentro di lei sempre più facilmente, sento che sta per venire e da una parte vorrei farlo in contemporanea, dall’altra vorrei che tutto questo non finisse mai…Si appoggia sulla mia spalla tremando, si sfila, mi bacia, mi alza, mi invita ad andare in camera.

Mi guida tirandomi per la mano, si appoggia sul letto, non so quali siano le sue idee ma sono troppo perso in lei per preoccuparmene, mi appoggio su di lei, la bacio, scendo sul collo, le mordicchio un seno, scendo a baciarle la pancia, ha una pelle incredibilmente liscia, il suo profumo mi inebria, scivolo dove volevo arrivare ed inizio a leccare, la sento completamente trasportata mentre continuo il mio lavoro, ha un qualcosa di magico nel muoversi, è come se mi avesse spiegato per anni cosa fare, fa sembrare tutto perfettamente immediato, mai provata una complicità del genere, si inarca, perde il controllo delle gambe, mi prende per i capelli per accompagnarmi, sembra che mi stringa tra le cosce per non farmi allontanare mai, geme, trema, alza il torso in preda agli spasmi, la posizione non è più il massimo per me ma lei è già venuta, seduta sul letto mi bacia, mi abbraccia, allunga la mano a trovare ciò che desidera ancora dentro di sé, mi massaggia i testicoli, trova il pene già duro, ho capito che lo vuole, non aspettavo altro, la stendo sul letto e mi faccio spazio, la penetro con poca difficoltà e penso di decidere io i nuovi ritmi, le do il tempo per adattarsi poi comincio a spingere la sento già cingermi con le gambe, ma non mi sta chiedendo il suo ritmo, sta accompagnando il mio, è qui che capisco che ci stiamo muovendo non l’uno per l’altra, ma come una cosa sola, non c’è un ritmo suo o mio, c’è un’unica entità che sta raccontando il miglior sesso che si possa sperare, entro ed esco da lei ormai facilmente, decidiamo che il nostro ritmo è più alto, mi appoggio su di lei, la sento gemere di nuovo, credo di aver capito a che punto siamo e qualcosa mi sembra incredibile: credo di essere allo stesso. Proseguo sul mio ritmo fino a quando mi si aggrappa con le mani ai glutei e mi chiama più dentro, più forte, più veloce, sono pochi secondi e la vedo inarcarsi di nuovo, sto venendo anche io, esco e mentre provo a masturbarmi per venirle addosso mi sposta la mano, vuole essere lei su di me quando esploderò, mi masturba, non so come, al ritmo esatto a cui l’avrei fatto io, vuole che venga su di lei, ottiene quello che vuole, il tempo di riprendermi dai tremori e mi accorgo che la magia non è finita, si sdraia attirandomi a se, chiude gli occhi, mi bacia delicatamente sulle labbra, mi abbraccia, rimaniamo abbracciati in silenzio a tornare al ritmo lento, rilassante e sensuale che ci ha accompagnati fino a poco fa. Non so quanto tempo sia passato dall’ingresso in quell’appartamento, né quanto ne passerò così, abbracciato a lei, so per certo che la serata non è finita e che un’intesa del genere non si spegnerà con uno “ciao”. Ricominceremo tra un po’, quando non sarà il momento mio, o suo, quando sarà il nostro.

La breve storia di Rocco la tartaruga

Rocco faceva la tartaruga. Cazzo di senso abbia questa frase lo si può capire conoscendolo: Rocco voleva volare, non si sentiva tartaruga, faceva la tartaruga perchè tutti semplicemente se lo aspettavano da lui. Non gli piaceva essere una tartaruga ma si sentiva scemo a dire di essere un falco, e alla fine il suo guscio gli piaceva anche. Era convinto che nessuno potesse sospettare che lui fosse, segretamente, un falco, si era arredato il suo guscio con tutte le sue cose, qualcuna da falco e qualcuna da tartaruga, percepiva le seconde come un intralcio, ma continuava a tenerle, senza neanche capire bene il perchè o il percome. Rocco tutte le sere tornava sotto la sua pianta, rientrava nella sua casetta, guardava le sue cose da tartaruga, e piangeva; si sfogava, andava al ruscello a sciacquarsi, tornava sotto la sua pianta, rientrava nella sua casetta, guardava le sue cose da falco, e riusciva a prendere sonno. Nei suoi pianti Rocco aveva pianificato tutto, solitario, sapeva come fare; cominciavano dal suo guscio a formarsi delle maestose ali, o almeno così le vedeva lui, in realtà era difficile accorgersi delle piccole escrescenze ossee ai lati del carapace. Rocco quella sera tornò sotto la sua pianta, rientrò nella sua casetta, guardò tutte le sue cose da tartaruga e, scoprendosi a sorridere, capì di essere uno di quelli che rivolge un sorriso al proprio passato; Rocco accomodò tutte le sue cose da tartaruga al suo posto, fuori di casa, sotto la pianta, indossò i suoi occhialoni da falco e si diresse al ruscello, ma non dove si sciacquava di solito, no, sul ponte 30 metri più in alto. Rocco guardò in basso e sentì che non c'era paura di cadere in lui, ma emozione sapendo che avrebbe volato; calzò bene il casco di pelle e gli occhiali, spiegò le sue nuove maestose ali e non saltò, Rocco volò, giù dal suo ponte. E mai vi racconterò come è finita la storia di Rocco la tartaruga, perchè da quel momento il cuore di rocco si riempì di se stesso, falco, e cosa successe dopo, non è importante.

Tre mandate

Clanc, clanc, clanc. Tre mandate. Elisa chiude a tre mandate e lascia fuori della porta l'ultimo ospite, si sdraia sul letto e dorme. Elisa non sogna, sa che non è vero, ma si è voluta convincere di questa cosa, ne ha avuto bisogno dopo mesi e mesi in cui sognava se stessa in pace, felice, sdraiata su di un prato alpino, dove amava camminare, sola. Sola e felice.
Sono ormai anni che ha raggiunto sé stessa, Elisa è una donna felice, è serena, vive una vita che tante altre donne avrebbero sognato. Redattore capo in una delle 5 riviste di moda più importanti del mondo, lavora di ciò che ama, viaggia, conosce posti sempre nuovi, entra ed esce dai migliori Hotel del pianeta, conosce uomini di ogni tipo e li chiude fuori a tre mandate.

Fa freddo fuori, e anche questa volta ha sorriso a se stessa quando ha visto la curiosità negli occhi dell'ultimo uomo che ha visto il suo letto: un solo cuscino; non ci pensi fino a che non lo vedi a quanto sia forte il simbolismo di questo gesto. Sono le due, un saluto più lungo di quanto lei stessa si immaginasse e poi le tre mandate. Elisa si sdraia sul letto e dorme. Domattina farà più fatica del solito a cancellare quel fottuto sogno che la disegna sola e felice, perché Elisa, sola, non è felice per un cazzo. Piangerà per la prima volta nella sua vita, farà una doccia, uscirà di casa, chiuderà, questa volta da fuori, a tre mandate, e non tornerà mai più in quella casa. Oggi Elisa ha paura ed è sola, e forse smetterà di fare quel sogno tanto odiato.

Godfrey

Godfrey Jhones è nato a Pasadena, California, come Missy Franklin, quella bella come i debiti ma che ha vinto 5 medaglie a Londra 2012.
Fin da quando è piccino l'hanno sempre chiamato God, e come cazzo lo volevi chiamare uno che si chiama Godfrey? Il problema è che God si è rotto i coglioni di essere ateo ed essere chiamato God. Allora al grido di "Mi sono sempre chiesto se c'è un dio, adesso lo so: c'è, e sono io..." all'età di 40 anni precisi si reca all'ufficio dell'anagrafe di Pasadena, California a chiedere di cambiare nome. God chiede di chiamarsi Giampiero Galeazzi grazie al vecchio amore per Domenica In che si porta dietro fin da quando aveva 50 anni. Per uno strano caso del destino il funzionario dell'anagrafe, forse confuso dalla pronuncia italiana, lo iscrive come Gigetto Er Caciottaro. Gigetto torna a casa, guarda la nuova ID Card e decide di ascoltare una canzone pallosa e di andarsene affanculo.


Bene, adesso se pensate che tutto questo sia un confuso casino pieno di scopiazzature e senza alcun senso, guardatevi 007 Skyfall e poi venitemi a chiedere scusa, che io come un cretino me lo sono guardato due volte quasi per intero, e ho bisogno di ricevere delle scuse da qualcuno.

Al Tre

-Non me ne frega niente di quello che dice il dermatologo.
-Ah beh, allora sai tutto te...
-Certo che so tutto io, la saponetta al sandalo mi fa schifo, la fanno con gli ebrei.
-Ma come fai a dire 'ste cazzate?
-Lo so io, l'ho sentito in TV: i nazisti ci facevano le saponette!
-Ma che c'entra il sandalo? Ha un buon profumo e purifica la pelle.
-Ma che cazzo dici? Gli ebrei puzzano e non me li strofino certo addosso, le saponette le uso solo al miele e quel dermatologo sarà un coglionazzo finocchio ebreo anche lui. Dov'è che l'hai visto?
-Da Barbara D'Urso!
-Ma vaffanculo, quella fammela vedere solo quando fa un porno, ma solo se sta zitta, non come la Tommasi. E sa una sega lei delle saponette ebree.
-Si va beh, continua a lavarti con il miele da Cacia. Che poi dove cazzo è Cacia? Almeno è in Italia?
-Acacia imbecille!
-E dov'è?
-E' la razza della vespa che fa il miele, c'è quella Eucalipta, quella Erika e quella Acacia.
-Che animali del cazzo le vespe.
-Non sono animali, sono insetti.
-Come i ragni?
-Eh.
-Ma falla finita, ora una vespa che fa il miele è uguale a un ragno o a uno scarafaggio?
-Ma che ne so, sarà la biomeccanica lì, quella roba di quella fica di legno che fa la geografia sul Tre. Forse sono insetti quelli che producono qualcosa.
-Eh, la vespa fa il miele, il ragno la ragnatela, ma lo scarafaggio che fa?
-Lo scarafaggio produce merda, non la guardi mai la TV? Fa queste palle di merda e le fa rotolare.
-Che animale del cazzo.
-E' un insetto testa di cazzo! Te l'ho appena detto!
-Sì va beh, a me un animale che mi piace è il coccodrillo.
-Cazzuto il coccodrillo, ma quello americano, che è più grosso, no quello italiano che c'ha le zampe fini e lunghe e sembra una specie di coccodrillo finocchio.
-Eh sì, lui sta zitto e poi attacca e ammazza la gente. Poi è intelligente.
-Cioè?
-E' tipo capisce le bestie che uccide mi sa, che dopo che le uccide e le mangia, piange, vuol dire che sa ragionare.
-Piange? Sì, e chiama la mamma?
-Ma vaffanculo, pensa al tuo sapone di merda di vespa.
-Quando cazzo arriva il lambretta?
-Ma che ne so, te premi questa ferita che se non arriva alla svelta questo stronzo ci rimane secco. E la colpa è la tua, ma ci beccano tutti.
-Oh vaffanculo, lo potevi vedere anche te!
-Anche io un cazzo, era chiaro: io facevo le casse, il Torba il direttore e te tenevi sotto le guardie.
-Sapevo una sega io che c'era quello di la.

-Dai zitto, quello è il furgone del lambretta, aiutami qui. Alzalo al tre.

33-0

Franco è un Clown. Franco ha sempre fatto il Clown nella vita, non ha mai trovato niente di meglio da fare che strappare sorrisi, non ha mai pensato che esistesse qualcosa di meglio che riscaldarsi il cuore con i sorrisi che riusciva a strappare. Il cerone bianco steso sempre con la stessa passione, la pompetta del fiore sempre perfetta, l'elastico delle bretelle sempre tirato, ogni singolo giorno di una vita che non riesce neanche a definire troppo breve. In tanti a trentatre anni penserebbero che sia troppo presto, Franco pensa che non saprebbe resistere pensando di vivere un giorno senza strappare un sorriso, o almeno senza averci provato. Franco a trentatre anni fissa i travetti affiancati al muro e si chiede per la milionesima volta se non sarebbero stati più belli verniciati di bianco anche quelli, come le pianelle che ci riposano sopra. Quelli come lui lo sanno quando il gioco finisce, oggi Franco cede alla malattia di cui non ha voluto parlare a nessuno, e cede con lo spirito del vincitore che è riuscito a far sorridere fino all'ultimo giorno, del vincitore che ha saputo nascondersi per non strappare mai una smorfia o una lacrima, ma solo sorrisi. Oggi Franco vince trentatre a zero, e muore sapendo di essere riuscito a strappare un sorriso al giorno senza mai vedere qualcuno triste per lui. Tra qualche giorno qualcuno lo cercherà, tra qualche settimana qualcuno penserà che forse Franco non era forte quanto credeva di essere e aveva chiesto aiuto tante volte, quel qualcuno verserà una lacrima per lui, ma Franco se ne sarà già andato e non sarà mai trentatre a uno, la rete l'ha mantenuta inviolata fino al novantesimo, della moviola post-partita non gliene è mai fregato niente.

1631984

Sta seduta allo Starbucks dell'aeroporto di Amsterdam, posa sul tavolo un peluche portachiavi, cinquantun'anni e una tazza di caffè. Fissa la sua tazza di caffè e ci infila lo sguardo talmente dentro da far pensare che non lo tirerà mai più fuori. La Patrizia la chiamano tutti Patty, praticamente da sempre, fin da quando era una bambina bionda che andava sempre in giro con una gallina di peluche che chiamava Gallina (beh oddio, all'inizio si chiamava Gaiina). Ormai è passato qualche anno da quando ha cominciato ad odiare il suo principe ed ha cominciato solo a piangere, odiare, ed odiarsi. Lei si era sempre sentita la sua principessa, era sempre stata al centro dei suoi pensieri, sapeva di avere sempre il suo principe pronto a correre a salvarla sul bianco Pony, già, un Pony, perché alla Patty da piccola piacevano i Pony, i cavalli seri le erano sempre sembrati troppo grandi e non aveva mai avuto un peluche di un cavallo vero, quindi il suo principe arrivava sul bianco Pony. Poi arrivò il 16 marzo 1984. Da qualche tempo la Patty aveva trovato un altro principe, e tenuto sempre più lontano il primo, che non riusciva ad accettare di perdere la sua principessa. La Patty ormai non voleva più suo padre come principe sul Pony, si era trovata il suo Principe Azzurro sul bianco destriero e si sentiva di volare. Fu quel 16 marzo che il Principe Azzurro sparì, una lettera, roba da non crederci oggi... "Credo che abbia ragione tuo padre, addio, ti amerò per sempre". Cazzo, conciso il ragazzo, con quello che costavano i francobolli poteva sforzarsi di più. E' da allora che la Patty ha bisogno di un principe, non le interessa più il colore, o il cavallo, chiama principe chi le sorrida tre volte di fila e le parli di peluches; ne ha conosciuti tanti, ed è stata la principessa di tutti, o meglio ha detto, prima di tutto a se stessa, di esserlo stata. La principessa di tutti, o la principessa di nessuno, il confine lo sente più labile che mai. E' oggi, in quel caffè, che rivede se stessa e realizza di non averlo mai cercato, dopo quel 16 Marzo 1984, ma di aver solo chiamato "principe" un passante dietro l'altro, e di non aver mai voluto essere una principessa, ma solo di averlo detto, di esserselo detto, solo di aver cercato di farla pagare ai suoi due principi, quelli che le hanno creato quel grande vuoto: quello che ha cacciato il Principe Azzuro, e il Principe Azzurro che non ha lottato per lei. Si sentiva rasserenata nella vendetta, a chiamare principe chiunque incontrasse, a sbatterlo in faccia a quelli che sapeva essere gli unici due a poterla far essere una principessa ma che non l'avevano voluto fare. Posa il cucchiaino e si chiede se invece non avessero potuto. Beve un altro sorso di caffè e pensa che forse non erano riusciti. Alza lo sguardo verso il tramonto e, a cinquantun'anni, si rassegna all'idea di essere stata lei ad averglielo impedito.

Quarant'anni

Il Terza si chiama così dall'anno in cui s'è diplomato: era la terza volta che ci provava. Ha sempre fatto casino e studiato poco, ma il problema di fondo è che il Terza, senza girarci tanto intorno, è stupido. Il Terza è stupido ma oggi che abbiamo tutti quarant'anni, vaffanculo, è l'unico che sorride davvero.

Bionda

Si guarda allo specchio e non si stupisce per niente nel rendersi conto di non ricordare quando s'è fatta bionda. Chi se ne frega, pazienza. Va a sedere sul suo mobilino Ikea davanti alla piccola finestra 80x80, guarda fuori come ha guardato fuori praticamente tutte le sere da cinquant'anni a questa parte. Non piove mai allo stesso modo, e oggi comincia a piovere come un giorno di vent'anni prima, come quel giorno. Chi se ne frega di quanto bagna i vestiti, la pioggia la senti dentro, e oggi la pioggia che sente è quella. Vent'anni e lo sguardo su quellochepotevaessere. Suona il telefono, è lui, è la solita telefonata "sto tornando, butta la pasta", le viene da piangere. Per vent'anni ha lasciato se stessa alla finestra ed ha portato qualcun'altro in giro per la vita. Voleva viaggiare, non ha viaggiato, voleva imparare il russo, ha solo sentito russare, voleva buttarsi da un aereo, oggi le importerebbe poco del paracadute, voleva fare la foto a un pinguino nella Terra del Fuoco, non trova più Pinguino, il pupazzetto di pezza che le aveva regalato la migliore amica. E' vent'anni fa che ha scelto, che ha lasciato andar via sotto la pioggia quellochepotevaessere mentre avrebbe voluto urlare da una finestra che al tempo era bloccata. Fu il giorno dopo che chiamò il falegname per rifarla, perchè si potesse aprire, per poter urlare fuori qualcosa che non avrebbe mai urlato. Solo due volte in questi vent'anni ha aperto la finestra, ma l'ha sempre richiusa con una smorfia, una di quelle smorfie che potevano significare tutto e niente, gioia e imbarazzo, rimpianto e rimorso, tristezza ed esaltazione. E ora è lì a guardare quella stessa pioggia, a girarsi gli anelli, a sentirseli sui polsi, a pensare che troppe volte negli ultimi vent'anni ha scelto la via vecchia per la nuova, anche se sapeva benissimo che la vecchia andava a finire davanti ad una finestra chiusa e non nella Terra del Fuoco in mezzo ai pinguini; l'ha sempre saputo, ma ha semplicemente messo se stessa alla finestra mentre un'altra lei guidava su di una strada che non le apparteneva. Non l'ha mai fatto pesare a nessuno, forse ha sempre avuto bisogno di portarlo lei un peso, le risultava più facile lo scegliere di apparire quello che ci si aspettava, non vivere, illudere, è sempre sembrata una brava ragazza, una brava donna, una brava moglie, è sempre stata semplicemente una persona triste. Oggi per la terza volta in vent'anni apre la finestra, e si rende conto che ormai quellochepotevaessere non può più essere, per la prima volta accetta che quella che non ha mai saputo se potesse essere la sua direzione, lo era. Ha capito che era come lei, che era lei, ma che aveva meno coraggio, o semplicemente ne aveva di più. Non è mai voluta andare a trovarlo, non riesce a pensarlo disteso dietro quella foto sorridente, da quando ha capito che tipo di sorriso fosse. La finestra è ancora aperta, il volto segnato da una smorfia, da una di quelle smorfie che per tutti potevano significare tutto e niente, per tutti meno che per uno, che era come lei, quella smorfia che altro non è che lei che si separa da se stessa. Chiude la finestra, si allontana, si gira, e per la millesima volta in vent'anni si guarda mentre cerca di aprire la finestra ed urlare qualcosa fuori.

Michele

Michele passa le giornate a guidare il taxi in quel cazzo di città incasinata e le notti ad uccidere Michela. Sono passati due anni e gli occhi sorridenti di quella donna incinta che ha caricato oggi a Termini sono bastati a farla rivivere. Con un paio di madonne Michele annuncia di aver capito di dover ricominciare tutto da capo, chissà quanto tempo gli servirà questa volta per uccidere Michela, e chissà se sarà l'ultima.

Sei

Ieri Elisabetta ha vinto al Superenalotto e finalmente oggi si è sentita realizzata nel guardare con disprezzo i suoi ex-colleghi pranzare nella gavetta.

Pagina 63

Dopo quattro ore con il capo chino su pagina sessantatre si "Il Diritto Romano", Marco decide che nella prossima vita suonerà la chitarra. Marco esce e a sua madre che gli chiede dove stia andando a mezzanotte e un quarto di Martedì sera risponde "A suonare la chitarra".

Sorrisi

E’ ingrassata un bel po’ l’Ele, e si scopre a sorridere di una macabra battuta pensando a quelle anoressiche o bulimiche che finiscono per togliersi la vita per aver messo su peso. In effetti cambiare jeans per poi abbandonarli definitivamente per le tute non è gradevole. E scoppia in una risata isterica a vedersi in paranoia per il proprio aspetto. Sostanzialmente sempre battuta i coglioni lei, giusto quel minimo di attenzioni che è necessario per evitare i commenti degli amici in quelle sere in cui decide di mettersi in tiro: se uno standard medio, anche se di basso profilo, lo mantieni sempre, poi quando ti metti in tiro ti eviti il simpatico che “guarda stasera come siamo belli”, un po’ come quando si prendono per il culo i bambini.
Adesso tocca a lei, rimette a posto i suoi fogli, controlla che non manchi niente e finisce per contemplare uno smalto in condizioni incredibilmente perfette per risalire alla mattina prima. Non ti fermi mai a pensare al perché decidi di muovere un braccio per spostare un foglio di carta, ma quando ti capita poi è sistematico che ti capiti di pensare “che pensiero del cazzo”, e all’Ele scappa un sorriso che non è più macabro né la risata isterica di pochi istanti prima, questo è amaro, è un sorriso consapevole, è quello che viene a ripensare a quei due sorrisi di tre mesi prima. Una stanza bianca e illuminata male dietro  una porta decisamente vecchiotta. Questi posti te li immagini come nei film americani ma non sono altro che normalissime stanze, con la solita triste balsa asettica verdognola, una scrivania, un lettino e un armadietto.
Tanti sorrisi per poco meno di dieci minuti, quasi senza soluzione di continuità, e il ricordo oggi oscilla tra un’insopportabile Julia Roberts e il Joker di Nolan, quello di Ledger che a lei era piaciuto tanto e per il quale aveva litigato con chi le diceva che le lodi sperticate erano solo per la prematura morte dell’attore.
Meno di dieci minuti, un sorriso alla presentazione, un sorriso a lei, un sorriso su e uno giù, sorrisi ovunque e un gran parlare; non ha voglia di sentire parlare oggi, figuriamoci allora, nel secondo giorno più brutto della sua vita. Un paio di mesi di riflessioni, di introspezione, di sofferenza, di domande, di domande insistenti, di domande pressanti, di rompicoglioni che non sanno farsi i fatti propri, e poi di consigli non richiesti, opinioni non gradite, responsi non accettati, sentenze non rispettate e alla fine il Joker e Julia Roberts. Il mostro stava più in silenzio, a parlare era per lo più il Joker, ed era piuttosto bravo. Col senno di poi l’Ele aveva colto il momento della svolta: non aveva mai parlato di religione fino a che, facendo domande sull’infanzia, non aveva colto un sussulto. Meno di dieci minuti, cinque a far leva su un passato messo da parte quasi più per pigrizia che per una vera scoperta di sé stessa, o degli altri, o del divino e del rapporto di lei con esso. Cinque minuti e tante lacrime, tanta fatica, un mezzo sorriso e due sorrisi nuovi nelle due donne, questa volta due sorrisi sinceri, ma non solo di gioia, forse anzi più da “mission accomplished”.

Certo in piena estate non se l’aspettava questo vento, anche se in effetti è bello alto. Ormai di mesi ne sono passati cinque dall’incontro con il Joker e Julia Roberts e l’Ele fa il passo oltre il parapetto. Un po’ le spiace, aveva delle cose da fare, ma il figlio di quello stupro proprio non riusciva a metterlo al mondo.

Il primo sole di primavera

Le mani cominciano a far male, e qualche dubbio a farsi largo: forse la corda doveva essere più sottile, meno fatica e più efficacia; gli basta ripensare a quanto tempo ha passato a studiare il tema per fugarli tutti. Del sorridere ha fatto un'arte, oggi è riuscito pure ad attirarsi l'odio di quanti trovavano da star male anche nel caldo del primo sole di primavera. Sai cosa mi è successo oggi, capitano tutte a me, non me ne va bene una. La cosa non gli è mai pesata, e forse ora che sta appollaiato su quella sedia assurda sulla quale si sta quasi in ginocchio a fare bricolage si rende conto che è l'unica cosa che sia mai riuscito a fare, ascoltare problemi, dispensare sorrisi. Che cazzo ha da sorridere, come cazzo fa a vedere del buono anche in una notte senza stelle, ma vada affanculo lui che non ha mai un problema. La cosa non gli è mai pesata, e forse ora che sta appollaiato su quella sedia assurda sulla quale si sta quasi in ginocchio si rende conto che forse è riuscito anche a far sfogare la frustrazione di tanta gente. Beh allora sono due cose, non male! Ha sempre trovato seccante ricevere più di quanto non riuscisse a dare, e più o meno ogni sera si trova a sperare di essere riuscito ad evitare questa seccatura. Passa l'ultimo giro di corda, toglie i guanti con la calma e la serenità di chi sa di aver finito, si lava le mani, apre una lattina di Coca Cola e gode al suono dell'alluminio che cede sotto la linguetta. Dopo il primo sorso toglie la maglietta sudata, va in bagno a darsi una sciacquata, torna alla sua Coca, a torso nudo. Due minuti e quarantasei secondi per finirla. Sciacqua la lattina sotto l'acqua, la svuota, la mette nel sacchetto dell'alluminio, cerca di chiuderlo ma quello stupido laccino gli scivola di mano e non riesce a stringere il nodo. La cosa è piuttosto stupida ma gli sembra tremendamente importante; raccoglie il laccio e chiude il sacchetto, poi lo va a portare in strada; domattina passerà la raccolta differenziata. Si va a mettere una camicia pulita e non impiega meno di cinque minuti a scegliere se metterla nei pantaloni o fuori. Nei pantaloni è meglio. Non gli dispiace per niente quella camicia bianca, soprattutto coi jeans blu scuro e le scarpe chiare. Per la prima volta si rende conto di aver lasciato qualcosa al caso ma decide che non sarà ora che smetterà di essere ottimista: il lampadario reggerà. Mette la sua nuova cravatta ormai convinto che non fosse necessaria una corda più sottile e saluta la morte come non ha mai fatto con la vita, con un sorriso sincero.

Oltre

Pronti via. A vederlo barcollare su quei tacchi vengono i brividi, non si capisce quando, ma prima o poi si spezzerà una caviglia a metà, qualche mezza risata dalla navata principale è un incoraggiamento ben più che sufficiente, l' Oltre avanza come mezza bottiglia di Jack Daniel's, un bel paio di tacchi 12 e una gonna da cheerleader slabbrata rubata a chissà chi, possano consentire. Lo chiamano Oltre dai tempi del liceo, quando tutti ritenevano di poter fare i coglioni solo fino ad un certo limite, lui no. L' Oltre arriva a metà navata e pare perplesso, si ferma, guarda fisso davanti a sé come se qualcosa non stesse andando per il verso giusto. La navata offre la eco giusta per risolvere l'empasse: un rutto fragoroso ricorda che sull'acustica anche nel quattordicesimo secolo sapevano qualcosa, pur senza formule e teoremi. L' Oltre arriva all'altare, pacca sul culo alla sposa, si beve il vinsanto del prete, decide di far capire ai presenti che non ha chiaro quale differenza di intimo ci sia tra il portare una gonna o un kilt e con un paio di madonne brinda a quella gran maiala della mamma della sposa. E anche questa giornata è guadagnata.

Quando l' Oltre arriva al Bar la mattina dopo e fa i complimenti al Rossini per il matrimonio; nessuno ha il coraggio di dirgli che il matrimonio del Rossini era a San Francesco e l' Oltre a San Francesco non s'è proprio visto. Sono le 8:45, l' Oltre prende il suo caffè corretto e oggi è un nuovo giorno.

Romanzi

Ormai è una settimana che siede sulla stessa panchina, e non è che abbia capito perchè, però c'è il sole, e ogni mattina alle otto arrivano quelle due a fare ginnastica. A sessant'anni, dopo quaranta di un lavoro che si è sempre un po' vergognato a definire tale, si ritrova a passare le proprie mattinate a pensare su di una panchina, a guardare culi e leggere i libri che avrebbe sempre voluto scrivere. Non è che sia più così facile capire quando ha smesso di raccontare gli orgasmi cui ha assistito, o alla realizzazione dei quali ha contribuito, e quando ha cominciato a descrivere quelli che ha sognato, però gli è sempre rimasto piuttosto chiaro il periodo in cui ha iniziato a inventarseli di sana pianta. Un biglietto in cucina, poche righe, e all'improvviso la consapevolezza che oltre al cesso, al suo studio, e alla camera da letto, la sua casa aveva un sacco di altre stanze con un sacco di robaccia mai vista. Scrivere romanzi e racconti Hard gli ha permesso di fare un mucchio di soldi senza che nessuno gli andasse a rompere i coglioni, niente foto in quarta di copertina, uno pseudonimo che già sembrava imbecille quarant'anni fa, venticinque milioni di copie vendute, la ricchezza dei ricchi veri, quella di chi la Ferrari la nasconde, non la mostra. Da quel biglietto ha scritto un solo romanzo, e poi si è messo a pensare, sono cinque anni che pensa, e nell'ultima settimana pare essere una panchina di abete, o pino, o ciliegio, si è chiesto più volte perché non gliene freghi niente di quale sia il legno giusto, il suo pensatoio. Sono cinque anni che cerca di capirsi, di capire la sua vita, il perché abbia sempre evitato il proprio pubblico, il perché abbia scelto la ragazza più bella del cineforum, e cosa esattamente lei abbia fatto nella propria vita per vent'anni accanto a lui, il perché non l'abbia mai tradita, il perché la sua casa sia piena di oggetti di cui non conosce neanche il nome, figuriamoci la funzione. Si chiede il perché di vent'anni con quella donna. Il perché quella panchina possa essere di abete, o di pino o di ciliegio. Il perché i due corpi plastici delle ragazze che fissa da una settimana non rappresentino più lo stimolo per scrivere qualcosa, o anche solo per andarsi a masturbare da qualche parte. Oggi Marco tornerà a casa, scoprirà quale sia l'essenza delle doghe della panchina, capirà il perché, e scoprirà che a sessant'anni non si è troppo vecchi per accettare di essere gay.

Lo scintilla

Lo scintilla comincia a credere che effettivamente potrebbe risparmiare molto in jeans se avesse un po’ meno da grattarsi le palle durante le giornate; lui pensa che lo chiamino Scintilla per quanto brilla la sua stella, che ha decisamente il tempo per tenere costantemente lucida, ma lo chiamano così perché il riflesso del sole su quella stella entra per tutta l’estate dalla finestra del Toxic tra le 3 e le 6 del pomeriggio; lo Scintilla sta sempre seduto sulla chaise longue che ha messo sotto il portico della centrale, non muove il culo da almeno 10 anni, a crossing deep lo chiamano così perché “è un coglione che sta seduto tutto il giorno”, anche se l’ultimo che gliel’ha detto non ha fatto in tempo ad arrivare alla “e” di coglione, lui invece è convinto che il soprannome nasconda un certo timore riverenziale. E se gli abitanti di crossing deep li prendi uno per uno, ha pure ragione.
Nelle celle ci sono 4 ubriaconi del cazzo, e se il suo aiutante, uno che gira con la sedia a rotelle da quando non ha pagato il pattuito alla Serena, non arriva alla svelta, li butta fuori perché di certo lo Scintilla non cucina per gli ubriaconi. La Serena era la sua prima puttana, ormai non lavorava più molto, ma il pompino della serena è ormai leggenda che solca tutto il deserto e lei lavora sempre meno perché ne ha meno voglia, non per mancanza di clienti.
Oggi lo Scintilla farà un salto al Lady S, la Serena oggi gli da l’ultima quota e si libera, lei, il locale e le gemelle; le è costato 5000 pezzi il giochino ma alla fine per un bordello da 6 stanze con saloon, la propria libertà e quella delle tre gemelle, le tre puttane più ambite fino a Novac, lo Scintilla le aveva chiesto proprio poco, c’era una specie di amicizia tra i due. Lui non pagava mai, e lei a volte si poteva anche rifiutare di offrirgli quello che era venuto a cercare, questa cosa si avvicina molto ad una solida amicizia a crossing deep. Lui si prenderà i soldi di lei, e le provvigioni delle sue ultime tre puttane, come sceriffo non guadagna un cazzo, ha i suoi 5000 pezzi, le sue tre puttane e la sua stella, il progetto è semplice: vendere quelle tre, fare un salto a death city, caricare dieci ragazzine sui cavalli e riportarle a crossing deep dove avrebbe comprato un bordello molto più grande, molto più bello è sufficiente a godersi la pensione senza fare niente. L’informazione delle ragazzine gli era costata molto, 6 mesi prima un incappucciato che riuscì non si sa come ad evitare di presentarglisi gliel’aveva venduta per 100 pezzi, e lo Scintilla vide l’acquisto a scatola chiusa subito come un buon affare. A ripensarci il suo comportamento gli sembra strano ma quando è andato a death town e le ha viste, beh, effettivamente l’incappucciato era stato di parola. Dieci ragazzine rimaste orfane dopo un gran casino successo quando la città ha cambiato nome. Per ora se ne stanno prendendo la massima cura i tre incappucciati rimasti sul posto, ma è bastato freddarne uno ed offrire 200 pezzi a testa agli altri due per convincerli. Tra poco tornerà a riprendersi le ragazzine, e staranno bene. Da come è morto il loro compare gli altri due incappucciati hanno capito bene che devono essere perfette al momento della consegna.
Lo scintilla alza il culo dalla chaise longue e si incammina scrollandosi la polvere di dosso verso il Lady S.



Le citazioni sono per la canzone I duri hanno due cuori (Ligabue) e per la serie La Torre Nera (S.King)

Il piegato

Di incappucciati ce ne sono un sacco, e quasi tutti sono dei maledetti gobbi portasfiga. Il piegato però lo riconosci dall’aria. Quando passa il piegato ti viene voglia di guardare da un’altra parte, e quando ti fa l’onore di parlarti, ti viene voglia di fare quello che il piegato vuole che tu faccia. Non va in giro gobbo, porta solo il cappuccio molto calato e la gobba gliela fa qualcosa sotto la tunica. Nessuno ha mai potuto raccontare cosa trasporti li sotto, ma pare che in diversi l’abbiano scoperto, e avrebbero preferito non farlo.
Sono passati diversi anni da quando il piegato ha smesso di cercare la Carta, fotte più un cazzo di gente crocifissa, non gliene fotteva un cazzo neanche prima, da quando gli dissero che sto tizio inchiodato era biondo e pallido pur essendo nato sotto il sole del deserto. Il Piegato non è un coglione, e se ti sembra che stia abboccando alle tue balle, vuol dire che sta aspettando il momento giusto per fotterti, spesso in senso letterale. Andò così, ripensa spesso allo spettacolo di finire 4 pederasti rincoglioniti ficcandogli la colt su per il culo e facendo fuoco; ultimamente tende a preferire il suo punteruolo su per la gola, il Piegato è diventato una persona sobria. Di certo come si raccontano stronzate e le si fanno bere a quasi tutti lo ha imparato dagli incappucciati, ma il Piegato racconta quello che vuole anche alle persone intelligenti, nessun incappucciato ci era mai riuscito prima, a parte le leggende dei tempi che furono, che parlavano di ori, agi e potere.
Il Piegato vende informazioni, non vende bambini, poi se l’informazione è “dove andare a trovare bambini” a lui che cazzo gliene frega. Con questo sistema non si campa male, ma bisogna girare parecchio, e ricordarsi le età di tutti e tutte.
L’ultimo affare a crossing deep l’aveva concluso 6 mesi prima con lo sceriffo. Un cliente facile, la testa di un coglione, ma di un coglione che ha incisi negli occhi gli ultimi sguardi terrorizzati di centinaia di persone; il Piegato rispetta gli intelligenti, ma quelli come lo Scintilla, un coglione che neanche capisce perché lo chiamano così, sa che è bene lasciarli in pace.

E’ l’ora di tornare, questa volta ha molte informazioni da vendere, potrà riposarsi per qualche tempo.


Le citazioni sono per la canzone I duri hanno due cuori (Ligabue) e per la serie La Torre Nera (S.King)

Blackjack

Quando Blackjack perde a carte ti tromba la moglie. Quando Blackjack ti tromba la moglie è bene che tu ti faccia i cazzi tuoi. Non è difficile, anche un ritardato la capisce sta cosa, quel rosso quattrocchi no, lui doveva avere qualcosa da ridire a tutti i costi. Adesso Blackjack deve ripulire la sua carta d’acciaio da tutto quel sangue e sopportare quella vacca nella stanza di là che sta urlando sul collo falciato del rosso. Però mentre Blackjack la puntava contro il muro non si stava lamentando, poteva dire a quel coglione di un roscio di andarsene, o restare a guardare, o comunque di non fare tutto quel baccano. “io ti ammazzo”? beh se dici “io ti ammazzo” a Blackjack dove vuoi andare?
Uscirà dalla casa di quella vacca senza preoccuparsi tanto, ma è bene che cambi aria per qualche tempo, e allora tanto vale che dia una curiosata in giro. Spiega alla vacca che ha stile e come prostituta può vivere agiatamente: Blackjack vede il bicchiere mezzo pieno, mentre ti rapina ti fa capire che la tua vita può svoltare, probabilmente si crede una sorta di Guru, e mangia le mele. I gioielli non li tocca, gli paiono roba sacra, privata, trova 100 pezzi in un baule, ne prende 50 soli, e la sua attenzione viene attirata da una scatola.
La scatola di un baro, appunti, note, carte segnate. Beh, Blackjack non è abituato a giocarsela alla pari, questa volta gli è andata male, ma poi si è rifatto. La scatola suona a vuoto. La chiusura sembrava complessa, ma se non devi fare silenzio una scatola la apri senza tanti problemi. Difficile sorprendere Blackjack, ma questa non se l’aspettava proprio. In quel doppio fondo un pezzo della Carta. Di leggende sulla Carta ne hanno sentite tante in tanti, ma chi cazzo mai se ne era ritrovato un pezzo in mano? Uno dei sei pezzi della Carta. Blackjack si deve essere accorto tutto d’un tratto che si è fatto tardi. Nasconde la mappa, vola le scale, esce, monta sul destriero e comincia a far finta di niente. Non ha mai attirato tante attenzioni. Di questa mappa gli aveva parlato uno straccione qualche anno prima, un pezzente veloce come il diavolo con il quale è bene non avere conti in sospeso. A quei tempi Blackjack bazzicava per crossing deep, comincerà la ricerca da lì, tanto doveva cambiare aria lo stesso. Blackjack lascia Novac con la stessa carica di quando stava iniziando la carriera da baro, questa è grossa. La mappa esiste ancora, e un pezzo ce l’ha lui.

Veleno

Un quarto alle dieci e Veleno è seduto da Mario davanti a una grappa e un posacicche pieno. Una foto di donna gli brucia da dentro la giacca, chiaramente dalla parte del cuore. Veleno è uno che non prega, Veleno a 13 anni disse, ma che cazzo vuole questo Dio da me? Io le cose me le faccio da solo, vada a fare in culo lui e i suoi soldi. Il pederasta incappucciato con la croce al collo provò a raddrizzarlo alla maniera degli uomini incappucciati. Veleno a 13 anni ha dimostrato che nel culo di un uomo incappucciato un badile ci entra tutto. Poi quello muore, ma la scienza richiede sacrifici ed oggi a Saint Sulpice si sa dove può stare un badile, grazie a Veleno. Ha ancora il gambo di sedano in bocca ma il Bloody Mary l'ha finito da un pezzo, il terzo. Veleno beve solo Bloody Mary. Quando passò a Death Town un gruppo di balordi gli fece notare che bere Bloody Mary è bere da finocchi. La città non si chiamava Death Town prima di quel giorno, ma dall'altra parte della valle hanno visto un bellissimo falò. Veleno scorre i fogliacci delle taglie, otto. Ha fatto i suoi conti, quel coglione dello Scintilla gli dovrà abbastanza soldi da aprirsi finalmente il suo bordello e vivere nella veranda a bere Bloody Mary guardando le sue puttane che lo mantengono. Il palazzo lo ha già scelto, ma è a Crossing Deep, e a Crossing Deep le cose non si prendono come di solito preferisce fare Veleno, si devono comprare, o lo Scintilla crea problemi. In tasca mette le quattro taglie che deve riscuotere, nel sacco le quattro teste dei Fratelli Storpi; era storpio solo il maggiore ma gli altri tre erano solo leccapiedi dello Storpio e si fa prima così, tanto che senso ha impararsi il nome di uno che serve solo per scambiare la sua testa con il denaro per il bordello.
Allo scintilla hanno combinato diversi casini, a Veleno non gliene batte un cazzo, anzi, i giochetti che ha combinato lo Zippo gli erano proprio piaciuti, ed ha pure imparato qualcosa. L'Elegantone, il Benzina, BlackJack e il Piegato.



Le citazioni sono per la canzone I duri hanno due cuori (Ligabue) e per la serie La Torre Nera (S.King)

Il Benzina

Il Benzina si sveglia di soprassalto sputando una bestemmia sul cuscino sudato. La puttana che gli giace accanto sobbalza e il Benzina risolve la situazione con un calcio nel culo che la vola giù dal letto. Ci mette poco a vestirsi e a partire col primo giro di Whisky. La Colt a destra, il Winchester in spalla imbragato sui cinturoni incrociati. Nessuno ha mai capito da che cosa venga Benzina, ma il nome gliel'ha dato il vecchio del suo vecchio, un uomo dei tempi che furono, uno di quelli che si muoveva con quelle carcasse di ferro che oggi disegnano le piste delle carovane attraverso il deserto. La caccia pare andare a rilento, non è che gliene freghi poi niente di infilare la testa di quel tale in mezzo al cappio di Devine City, ma quando ha lanciato la moneta è uscita croce, e la sua moneta quando chiede una croce, deve avere una croce. Gli sono sempre stati sui coglioni quegli incappucciati che parlano di croci e di un tizio che crea tutto, fa di qui e fa di là, ce l'ha lungo mezzo metro, ma ha sempre bisogno che il Benzina dia il proprio denaro ai suoi grassi incappucciati pederasti. Il Benzina è uomo generoso, ha sempre avuto un argomento per ognuno di quei grassoni incappucciati, uno degli argomenti del Winchester che porta in spalla, ma all'educazione ci tiene e mai si permetterà di lasciare una delle loro richieste senza una delle sue risposte. Ma coi suoi morti, beh, una croce sulla buca ce la mette sempre, gli pare quasi dovuto, soprattutto per quelli che gli sono costati una certa fatica o un certo ingegno.
Il Benzina esce dal Tango 'n' Tango pensando che non ne bastava uno di coglioni che si chiama Tango, ce ne volevano due, e che si trovassero pure! Bah...
E' in quel momento che vede un merdoso mangiafagioli volargli incontro con un cavallo da dritto urlando come un invasato. Il Benzina si è appena alzato ed ha mal di testa, se quel coglione avesse avuto uno di quei ronzini da mangiafagioli lo avrebbe già steso col fedele Winchester assicurandosi poi di spiegargli che non si fa rumore vicino al Benzina quando il Benzina si è appena alzato sbronzo accanto a una puttana che non lo ha svegliato all'alba come avrebbe dovuto. Ma quel cavallo è un cavallo da pistolero, e quel mangiafagioli l'ha rubato, e se ha tutto quel pepe al culo, il pistolero ce lo avrà dietro, e il Benzina ha bisogno di saperne di più. Lo tira giù con un'asse di legno, il cavallo lo fermano i passanti venti metri più in giù, il mangiafagioli lo ferma il terreno con un tonfo sordo. Si riprenderà tra una mezz'ora, nel frattempo il Benzina metterà quel cavallo da pistolero sotto la sua sella.



 Le citazioni sono per la canzone I duri hanno due cuori (Ligabue) e per la serie La Torre Nera (S.King)

L'Ele

Esistono esistono, eccome se esistono quelle balle di rovi che rotolano per il deserto. Ele lo chiamano, che cazzo di soprannome, ma Elegantone era troppo lungo. Il risolvere i problemi di chi lo chiamava Eleonora non è mai costato più di un paio di proiettili. Sotto quel centimetro di sabbia e quel cappellaccio nero, ancora più sotto, ben nascosto sotto un mese di deserto, c'è l'Ele, quella roccia non è comoda, ma è più faticoso pensarci che adattare il culo a quegli spigoli. Un filo di erba diavola in bocca mentre rolla una canna. Il trasporto passerà tra qualche ora, quando il sole finalmente deciderà di andare a rompere i coglioni a quegli stronzi che fanno pascolare le loro vacche al di là del Picco Nero. Gli serve un cavallo, quel messicano mangiafagioli gli aveva rubato il suo, beh, sarà contento di averlo scambiato per quei merdosi dei suoi 5 fratelli e quella vacca della madre dei suoi figli. Quelli no, l'Ele i bambini non li ammazza, ma dal Mercante c'ha fatto 60 pezzi, 15 per i maschi e 5 per le femmine. Ma il cavallo non ha intenzione di comprarselo, per poi magari vederselo rubare da un altro schifoso gringo mangiafagioli. L'attesa non l'ha mai infastidito, l'Ele è uno che aspetta, e pensa. Pensa molto, risolve un sacco di problemi, e non spiega mai un cazzo a nessuno. Sono tre quelle mosche, una però non si ferma, è bene che lo faccia alla svelta. L'Ele finisce la canna e la accende sulla brace che gli ha fatto compagnia dalla notte scorsa. La terza mosca, quella impertinente, finalmente si ferma, sulla punta dello stivale destro, quello che nell'incrocio resta sotto. Lo sguardo mette a fuoco a 300 metri, due ragazzotti a cavallo. Il figlio del prete, quel finocchio pederasta ha pure due mogli e decine di figli cacati in giro negli ultimi 20 anni. L'altro è il suo amico spaccone, quello che si crede un uomo perché ha sempre avuto il culo di evitarne uno nervoso, o senza cavallo. L'Ele l'ha già sentito chiamarlo Eleonora qualche mese prima mentre lui stava andando di sopra con una puttana, Eleonora, lei sì. E il cicciottello giù di sotto diceva qualcosa su lui che con l'Eleonora non scopa, fa scopa.
C'ha messo un po' l'Elegantone a capirla, e quando l'ha capita aveva altro da fare.
I due ragazzi ormai sono arrivati. Si fermano, il figlio del pederasta lo saluta con un "Haye", l'Ele gli presenta l'unica amica. La sei colpi saluta due volte, l'Ele si è trovato due cavalli nuovi.




Le citazioni sono per la canzone I duri hanno due cuori (Ligabue) e per la serie La Torre Nera (S.King)

Il terzo sgabello

Il Tacca è curvo sul bancone. Non gli devi rompere i coglioni al Tacca quando è curvo sul terzo sgabello da sinistra del Napoleone. Ne ha cinquanta di quelle camicie a maniche corte, mezza fuori dai jeans e mezza dentro. Gli occhiali rossi sul naso, il solito aspetto da secchione, magari non così tanto mingherlino quanto ti aspetteresti dal tipico nerd, ma di certo non ha il fisico da tronista. La borsa da lavoro appoggiata ai piedi dello sgabello, a stretto col bancone. E' il quarto Bayliss con ghiaccio che beve. Il taglio precisino con la riga a sinistra comincia a scompigliarsi leggermente e un ciuffo cade sopra gli occhiali. Che immagine del cazzo, non c'è uno che non lo chiami sfigato, e quando è curvo sul terzo sgabello del Napoleone nessuno lo va mai a cercare.
Quattro ragazzini seduti al tavolino lo stanno prendendo per il culo da almeno 20 minuti. Il tavolo ormai è vuoto di bicchieri pieni e pieno di bicchieri vuoti. Cazzo quant'è grosso quello che si alza, non ha neanche capito se la scommessa l'ha vinta o l'ha persa, perché aveva proprio voglia di andare da quello sfigato al bancone a fargli notare che lui è un sacco giusto. Il ragazzino palestrato si avvicina, gonfia il petto, forse non ha vent'anni, il Gomma lo vede dal suo angolo del Napoleone e fa segno al Cazzimia, i due già se la ridono.
Il ragazzino si assicura che si noti il segno dei pettorali sotto la maglietta e tocca tre volte la spalla del Tacca "oh, te...". Il Gomma e il Cazzimia hanno cominciato a ridere ben prima che il Tacca, senza risposte, senza voltarsi, assestasse la solita gomitata alla mandibola del solito imbecille che va a rompergli i coglioni quando è al terzo sgabello del Napoleone. Il Tacca si toglie la cintura, prende le chiavi, e ci fa un altro segno sopra. Comincia ad essere tempo di una nuova cintura. Infila di nuovo la cintura e si rimette a bere. Gli altri tre ragazzini trascinano fuori quello che ha rotto i coglioni al Tacca. Domani dovrebbe riuscire a parlare abbastanza bene da chiamare il dentista.

Trentacinquemila

Marco studia. Quelle carte solo due mesi fa non volevano dire un cazzo, un mucchio di righi, pochi colori, tratteggi, simboli...Si era detto che sarebbe servito studiare ingegneria elettroqualcosa, si era detto che forse così avrebbe potuto provvedere alla sua famiglia, a tutti i suoi fratelli. Che vita di merda, perché Alessio doveva ammalarsi? Per quale motivo servono tutti questi soldi per curarlo? Perché suo padre è finito in galera? Ha solo detto quello che pensava! Per quale cazzo di motivo li hanno cacciati di casa? In qualche modo avrebbe potuto pagare, quella era casa sua. Marco guarda la foto con le sue sorelline più piccole, Marta e Serena, uccise all'ultima manifestazione, 12 anni, due gemelle dai capelli del colore del grano estivo, pettinati come il vento pettina quest'ultimo. Non riuscirà mai a dimenticare quegli occhi, verdi quelli di Marta, azzurri quelli di Serena, due bambine così diverse e così perfettamente raccontate da una sola foto, Serena lo abbraccia e lo guarda con occhi sognanti, Marta gli si arrampica addosso e ride di un riso che più contagioso è difficile immaginarselo.
Riprende le carte, arrotola il primo foglio, formato A3, ormai un po' sporco, un oggetto che racconta di non essere stato letto, ma vissuto. Studia il secondo foglio e si gira a controllare i circuiti. Sembra tutto a posto. Arrotola il secondo foglio. Il terzo A3 è una mappa. Beh, Marco l'ha decisamente personalizzata, ha attaccato la foto di suo padre, delle sue sorelle, ha attaccato la foto di sua madre, prima dell'ospedale, si è scritto diverse cifre, alcune in euro, altre in dollari, sottrazioni, tante somme, qualche rapporto; la matematica gli piaceva tanto a scuola, almeno fino a quando non è rimasto lui a doversi prendere cura della famiglia. Finalmente Eleonora è pronta per gestire i conti di tutti i fratelli e dell'ospedale della mamma. Niente soldi, ma qualcuno che saprebbe gestirli, Eleonora saprebbe portare Alessio a Seattle a curarsi se avesse quei venticinquemila dollari. E chi li ha mai visti questi soldi?
Marco ha studiato inglese per insegnarlo ad Eleonora, che ovviamente non poteva farlo in altro modo, sa che dovrà essere lei a portare Alessio a Seattle, lui non potrà farlo. Le ha detto e ripetuto che deve rimanere lui a casa. Non ha detto la stessa cosa a Riccardo, l'amico di una vita, a lui ha spiegato tutto. Tommaso l'hanno conosciuto insieme, Riccardo non ha ancora deciso di fare l'ultimo passo, Marco sì. Cos'altro potrebbe fare? Suo padre è in prigione perché parla, sua madre sta morendo in ospedale, le sue gemelle più piccole sono state uccise lo stesso giorno, la stessa ora, lo stesso minuto, con la stessa raffica ad alzo zero, Alessio morirà se lui non farà niente. Gli rimane Eleonora, porterà Alessio a Seattle e una volta lì forse le cose potrebbero andare meglio.
Arrotola la carta leggendo per l'ultima volta venticinquemila scritto sotto la foto di Alessio e la cifra più sotto, trentacinquemila. Con diecimila dollari Eleonora sa prendere i biglietti per Seattle e può tirare avanti per un po'. Il the è pronto, prenderà un the con lei, come ai tempi in cui lo preparava la mamma. Prima deve sbaraccare tutto e preparare lo zaino. Butta le carte nel fuoco, chiude la Bibbia, mette la bomba nello zaino, lo chiude. Prenderà l'ultimo the con Eleonora, saluterà Alessio, andrà a farsi saltare in aria e spera che quei trentacinquemila dollari che domani daranno a lei, basteranno per far avere ad almeno due dei suoi cari la vita che meritano.
Poco importa se invece che Marco, si chiama Hamed.


Onde

Nuota. Da troppo tempo affoga in una vita che non le appartiene; una vita cui si era accostata timidamente e che con troppa facilità l'ha inghiottita. Le ha strappato ogni giorno, ogni ora, ogni minuto; ha allontanato ciò che è diverso da lei e poi l'ha circondata; era marginale, è diventata la sua aria. Da tempo immemore non respira veramente, respira la sua nuova vita, non ne fugge, non ne ha coraggio, non crede di saper più respirare qualcosa che non sia la sua nuova aria. Il tiepido sole di oggi l'ha distratta, si è allontanata dai simboli della sua nuova vita senza neanche accorgersene, un piede dietro l'altro, l'acqua le ha raggiunto le caviglie, le ginocchia, il sedere; si ferma per un leggero brivido quando l'acqua arriva alla pancia. Si volta. Vede la sua vita. E' rimasta lontana, sotto l'ombrellone. Si gira verso il mare aperto, prende finalmente una boccata d'aria e si immerge. Trova nell'acqua una leggerezza che va ben oltre le intuizioni di Archimede, alleggerisce se stessa mentre si allontana da una vita che non deve più essere sua. Nuota, e l'orizzonte non è più così lontano.

108

Il pomeriggio è segnato dal tiepido sole di maggio; gli alberi lottano con il vento che, impertinente, comunque sa di non poterli vincere. Il silenzio è sottolineato dal rombo sordo dei profili alti in carbonio e reso ancora più struggente da un applauso lungo duecento chilometri, non una nota, una voce, si alzano ad arrogarsi il diritto di essere protagonisti. Sono solo i bambini a prendersi questo diritto, ed è nella loro gioia, in quegli occhi luminosi, che si specchiano, e si rinfrancano, quelli lucidi.


La citazione è per la tragica fine di Wauter Weylandt

Trenta minuti

Gli salta al collo e lo abbraccia con una forza tale da farla sembrare sincera, è il quinto negli ultimi venticinque minuti.
Lui siede scomposto su di una sedia inutilmente scomoda già di suo, non sono gli stessi occhi di cui si è innamorato.
I minuti sono trenta, il collo appena assaltato è il settimo, dietro baci, abbracci, risate non è più particolarmente complicato leggere quel senso di incompiutezza che forse lui ha notato già da tempo, quel bisogno di sentirsi apprezzata dal maggior numero di persone, come una vecchia ragazza che, passato il proprio momento, spera di farsi amare vendendo la propria dignità in qualche reality show. Lei si gira a guardarlo, lui le regala un sorriso tanto amaro da gelare il sangue, lei non se ne accorge neanche. Domani, passata la sbornia, finalmente la lascerà. Lei non piangerà neanche.

Oltre la collina

Il cielo diventa di un azzurro struggente oltre quella collina dove una vigna ha scritto se stessa.

Luci ed ombre

Il sole taglia la piazza proprio sulla striscia di marmo bianco e il segno non è meno netto di quello del diamante sul vetro. Il pruno rosso gioca sul confine tra luce e ombra mosso da un vento insolitamente vivace. L'acqua della fontanella riflette la luce sulle pareti in ombra mentre quel bambino biondo non riesce a berla, disturbato da quel sole così tagliente. Sulla panchina in fondo alla piazza due bambine si confidano qualche segreto mentre vezzosamente arrotolano le maniche delle magliette per prendere meglio uno dei primi soli dell'anno.

Lei osserva. Lo sguardo perso nel vuoto ma un sorriso che testimonia della percezione di quello scenario così rasserenante. Era al sole dieci minuti fa, non si muove, adesso l'ombra le maschera il volto, la luce le fende il viso a metà, forse non se ne accorge, forse non le dà fastidio, forse è così che si sente se stessa. Si asciuga gli occhi, sopprime un singhiozzo. Non è giusto chiamare fratello un figlio.

Exit

Vent'anni. Sembra un lasso di tempo, è un'eternità. L'alienazione l'ha scavato dentro, la routine l'ha inquadrato in uno schema mentale che ormai lo comanda, i rapporti umani gli hanno offerto solo una grande diffidenza verso i suoi simili. Sono vent'anni che sogna questo momento, anela un "altro da sé" che ha ogni giorno di più idealizzato, che ormai è per lui dose di eroina senza la quale non può superare la giornata. Per vent'anni si è isolato dal mondo e fatto della sua droga, ed oggi ha forti difficoltà a credere che tra breve l'estasi sarà sua. Il timore comincia ad attanagliarlo, non quello di non sapere cosa fare di sé, ma quello di non trovare il paradiso che per vent'anni ha sognato, quegli spaghetti alle vongole che non sa neanche più di cosa possano sapere, quel grande pastore maremmano con cui vuole giocare su un prato senza orizzonte, quella donna che vuole sua dopo aver dimenticato cosa questo voglia dire.
Che presa per il culo, sono venti anche le firme da apporre su tutte quelle scartoffie. Posa la penna, restituisce i documenti, riprende i suoi effetti personali, un portafogli, un accendino, la catenina d'oro della prima comunione; quei soldi non esistono più, ma non ha voluto cambiarli quando gli fu offerta la possibilità, che siano di ricordo per ciò che ha fatto, non è passato un giorno senza che si fosse punito con il ricordo del suo passato, ma vuole mantenerne anche un ricordo tangibile.
Le serrature blindate fanno un suono sinistro tetro, terrificante, per chi entra, o resta dentro, suonano note incredibilmente dolci per chi le attraversi nel senso opposto.
Il primo sole primaverile è inaspettatamente freddo, il vento incanalato nella strada taglia il volto in due, l'aria è così pulita da bruciare i polmoni da dentro, il ricordo di sua figlia nel bagno di sangue della sua ira lo investe come un treno in corsa.

L'estasi altro non è se non una insopportabile crisi di astinenza, è già morto prima di tornare a casa sua. Vedere quella cucina, quella dove uccise Martina, lo finisce. Non è il cappio stretto attorno al collo, era già morto.

Il ladro di sorrisi

Mi svegliai con un mal di testa insopportabile, atterritto dal pulsare ritmico ed incessante delle meningi decisi di trascinarmi fuori in fretta, nella speranza che l'aria fresca del mattino potesse alleggerimi le tempie. "Ho bisogno di uscire e prendere un po' d'aria".
Mi sembrò particolarmente strano quel giorno spostare il tubo di ghisa che puntella il portone di metallo che ho addossato all'ingresso, non pesante, anzi, lo sforzo mi parve irrisorio, e quel portone pesa quasi 100 kg, ma sembrava come se si piegasse sotto la mia presa. Il sole mi arrivò in faccia come un tir, era più tardi di quanto pensassi, e si era già alzato troppo sull'orizzonte: non mi è mai piaciuto il sole; anche se al fastidio che mi ha sempre procurato ha sempre coniugato una strana sensazione di benessere, qualcosa che farebbe pensare ad una memoria sopita; forse "sempre" non è la parola giusta, forse un tempo non era così. "C'è qualcosa che non va, prendo il giornale poi mi fermo al bar per un caffè, sicuramente mi riprendo".
La giornata cominciò piuttosto male, la mia vicina stava tornando a casa con la spesa, si girò verso di me e rimase pietrificata come alla vista della Medusa, le buste di plastica troppo cariche le stavano solcando le dita, le ultime falangi ormai di un rosso quasi preoccupante. Accennai un sorriso, e mi parve strano, lei in preda al terrore lasciò andare le borse e scappò in casa. Ancora ricordo distintamente il rumore della bottiglia di passata di pomodoro che cozza sul marciapiede e si rompe, il rosso vivo che ha lentamente preso proprietà del marciapiede mentre un'arancia ha deciso di testimoniare che il piazzale effettivamente è un buon compluvio verso la caditoia della fogna laggiù in mezzo. Non mi ricordavo che la città fosse così rumorosa. Uscii dal cancello ma la strana sensazione di non avere un congruo legame con la fisica delle cose non mi abbandonava: mi sembrava di camminare in modo asimmetrico, eppure non si dimentica come si cammina, non è normale, e poi i miei passi li facevo, coprivo la distanza che mi ero prefisso di coprire. "Sarà un malessere generale per colpa del mal di testa". Mi scoprii però spiazzato: non sentivo più mal di testa; ma decisamente non mi sentivo bene.
In fondo alla strada la solita auto del solito coglione che ha scambiato il vialetto per una rotonda, sul sedile di dietro due occhietti vispi che si sbarrano a guardare nella mia direzione, il Tegolino si spiaccica sul vetro lasciando uno di quegli aloni che il padre si divertirà poco a pulire; mi girai di scatto, ma non mi accorsi che ci fosse qualcosa di così terrificante.
Di certo però mi accorsi che la mia irrequietezza continuamente cresceva.
Il passo divenne più deciso e riuscii ad avvicinarmi all'edicola con una certa serenità, mi resi conto di quanto indifferente ti può essere il tuo mondo: avrei salutato i miei vicini, tre diversi vicini in tre occasioni diverse, in quelle poche centinaia di metri, ma il primo, il figlio adolescente dei vicini, camminava immerso in quel cazzo di telefonino da 700 euro. La seconda, una vecchina col cane che non ho mai capito chi fosse, ma che erano anni che incrociavo, mi sembrò quasi facesse finta di non vedermi. La terza fu quella che mi colpì maggiormente: la signora maghrebina che si è trasferita ultimamente dall'altro lato della strada; camminava avvolta nel suo abito, non ho mai capito da quale parte del maghreb arrivasse nè come si chiamasse quel tipo di abito, di certo poetico oltre quel limite che ti strappa un sorriso per l'onore concesso ai tuoi occhi, teneva per mano il bambino, mi vide, incrociò il mio sguardo, accennò un sorriso, un sorriso insolito, più che cortese direi compassionevole, passò una mano sulla testa del figlio. Ancora ricordo emozionandomi quella finestra di vita, una foto che vale più di tanti filmati.
Fu una volta girato l'angolo che la mia irrequietezza tornò a galla, che rapidamente cercò di tramutarsi in paura, subito dietro l'angolo mi imbattei in tre ragazzine a spartirsi, non ricordo bene come, un lettore mp3, forse avevano un qualche tipo di sdoppiatore, interruppero il canto di una di quelle canzonette insulse partorite dietro le quinte di un reality per vendere dischi a ragazzine come quelle, lo interruppero per lanciarsi, due di loro, in un urlò terrorizzato, si voltarono e scapparono nella direzione opposta. Rimasi spiazzato, mi guardai intorno "Oh cazzo, e se ha visto qualcuno? Ora sembra che abbia fatto loro qualcosa, che mi invento? Che faccio? Proseguo? Faccio finta di niente?", vissi un momento estremamente fastidioso, un imbarazzo misto a spavento che mal si racconta a chi non l'ha provato. Ma il peggio venne dopo, due signore dall'altra parte della strada si voltarono a guardarmi, vidi tutta la scena, si voltarono incuriosite, bastò loro un secondo per girarsi terrorizzate, abbassare lo sguardo, allungare il passo e levarsi dai coglioni.
Allungo il passo a mia volta, supero il distributore di benzina, ormai gli sguardi dall'incuriosito all'atterrito che mi accompagnano sono diventati la norma, l'insegna della farmacia entra nel mio campo visivo: 27 gradi, in effetti fa caldo, 27 aprile 2016, in effetti è il 27 a...2016? "Stupidi tabelloni elettronici, tiltano sempre!".
Decido di volgere lo sguardo al traffico mentre cerco di coprire gli ultimi 200 metri per l'edicola. "Ma che macchine sono queste?". Poi una Punto, una Mito, uno di quei furgoni da sempre familiari. "Qui qualcosa non torna, da dove sono venute fuori quelle auto di prima? Forse era qualche modello in lancio". Ultimamente non seguivo molto il mercato dell'auto. GA 124 TO. "Ma che cazzo di targa è???".
Mi misi a correre, cominciai ad entrare nel panico, non mi veniva molto spontaneo, la mia andatura era decisamente caracollante, ma la velocità era aumentata e mi bastava questo, avevo bisogno di un giornale, ormai volevo solo sapere che giorno fosse.
Poi la fine. Passo accanto ad un palazzo a vetri specchiati, facciata a Nord, nessun riflesso, solo una sagoma deforme, un ominide completamente sfigurato, una pelle praticamente fusa, la schiena incurvata, una gamba estremamente più sviluppata dell'altra, ma molto più corta, due occhi spaventosamente incavati, lo scalpo tagliato via e la calotta cranica segnata da macchie di sangue coagulato che raccontavano di un passato un po' più nascosto del presente. La pelle sembrava come porosa, bombardata, ustionata, forse figlia di radiazioni, fu a quel punto che mi guardai le mani, 4 dita, gli anulari amputati e le ferite perfettamente rimarginate. Indossavo un paio di pantaloncini ed una camicia che faceva fatica a contenere un fisico spaventosamente accresciuto rispetto a quello di chi la acquistò, solo a quel punto pensai di non essermi neanche vestito, ma essere solo uscito di corsa. Nella vetrina accanto, 5 televisori uno più grande dell'altro mandavano in sincro un tale che a SkyTg24 cedeva la linea alla signorina del meteo. "Oggi 27 Aprile 2016...".
Fu allora che realizzai di non aver vissuto per 5 anni precisi, e di essere diventato chissà cosa, chissà perché, sopra pensiero mi girai verso casa, sconvolto, convinto che forse non c'era altro da fare che tornare a casa, casa? Quella polvere, quella porta strana. Un miliardo di foto degli ultimi 10 minuti ritornati alla mente a comporre un quadro incomprensibile, struggente, desolante, terrificante. Mentre mi giro un viso d'angelo, una bambina sorrideva sotto al cappellino bianco, poi vide me, il terrore la avvolse, corse dal padre rimasto 3 passi indietro, ancora mi ricordo le sue parole "Cosa ha fatto alla mia bambina? Vada via, Mostro!". Mostro. Un mostro che ruba i sorrisi ai bambini. Una 9mm sotto 2 centimetri di polvere sul tavolo accanto al mio letto. Quello fu il giorno in cui mi uccisi con l'unico proiettile nel caricatore di quella 9mm.

Suoni

Nel timore dell'ipocondria ripercorre, intellettualmente percosso, un'esistenza figlia dell'inaspettato momento che la ha resa definitivamente onirica. Si espande nel metafisico dopo essersi chiuso in un io desolatamente inconcludente e sogna di una dimensione inequivocabilmente troppo sfaccettata per il comune senso morale dettato da un qualunquismo non più veniale, oltremodo venale. Subisce se stesso nel vortice di tempestose elucubrazioni mentali e trasferisce il proprio ego a dita che irresponsabilmente battono su tasti vivi di trascuratezza.

Ardesia

Il pomello della porta è insolitamente appiccicoso e quella sgradevole sensazione non è dovuta alla mano un po’ sudata per l’ennesima giornata afosa; probabilmente Elena non si è lavata le mani dopo essersi dedicata alla cura del giardino. Alessandro non ha mai sopportato chi imbratta le cose ma con Elena ha sempre lasciato correre. È consapevole che quella stempiatura un po’ troppo accentuata e quel fisichino esile da impiegato triste non sono sufficienti a meritarsi una donna così bella quindi pragmaticamente evita di romperle i ciglioni. A 31 anni ha però deciso che lei meravigliosa ventiseienne neolaureata merita un uomo un po’ più avvezzo alla cura di sé stesso. Si è iscritto in palestra, il fisico pare quello di sempre ma si sente più forte, il sesso dura di più ed è certo che lei ultimamente venga prima, più spesso e più intensamente: un altro mese di palestra e si sentirà Rocco Siffredi, alla faccia dell’evidenza.
Mentre gira quel pomello appiccicoso si chiede cosa se ne facciano di una casa così grande; già, perché Alessandro sta già pensando al tragitto porta-cucina, dove prenderà la spugna e la bagnerà, al tragitto inverso, alla pulizia del pomello e al terzo viaggio per sciacquare la spugna.

Non hanno figli ma quella villetta recuperata da un’antica fattoria, 10 volte più bella di quegli aborti recenti sull’altro lato della strada provinciale, sarebbe abbastanza grande per ospitarne comodamente 5. lui ha 31 anni ma non è un giovane, di figli non hanno mai parlato, lei si è laureata da poco, era sottinteso che non ne volessero prima, ma adesso? Alessandro ha fatto progetti di allargare la famiglia, ha sognato lei col pancione con lui all’ikea a scegliere i mobili e si è già visto bestemmiare perché gli avanzano troppe viti. Non le ha mai confessato questi sogni da piccolo carpentiere e meno che mai quelli da giovane papà. La paura di perdere una donna che è convinto di non potersi permettere lo sta lentamente chiudendo in sé stesso.

Mentre si avvia verso la taverna del piano terra sente un rumore dalla loro camera, si rallegra a saperla sveglia e si chiede se finalmente non abbia deciso di affrontare le notti afose con la finestra aperta.
L’acqua scorre lentamente come al solito ed Alessandro per la ventesima volta si ripromette di chiamare l’idraulico. Ritorna con una spugna verso la porta, pulisce e torna indietro. Guardando lo studio del piano terra si fa pena da solo scoprendosi a pensare che potrebbe invitare la madre a stare con loro. Scaccia un pensiero che lo fa sentire più antico che vecchio, posa la spugna nel lavello e si chiede se ha effettivamente sentito Elena domandargli qualcosa.


Elena ha scoperto il sesso troppo tardi, con suo grande rammarico, e lo ha vissuto quasi a voler recuperare il tempo perduto. Ha avuto pochi uomini prima di Alessandro; dopo un’adolescenza scivolata via segnata (poco) da molte guance arrossate, pochi baci e un paio di mani sulle tette, Elena a 19 anni ha scoperto il sesso: il ragazzo della sua vita, lo pensano tutte, non indovina nessuna. Tommaso era innamorato più di lei ma dopo 3 anni, finiti i flussi di ormoni, sperimentato tutto lo sperimentabile del sesso etero a due, Elena voleva provare altri fisici, altre forme, altri sapori; Elena voleva altro e chi se ne frega se mi chiami amore.
Poche esperienze ma molto coinvolgenti, con uomini e donne, fino a cadere tra le braccia di Alessandro. Si erano conosciuti tre anni prima, per caso, lui voleva provarci con l’amica di lei, ma in mezzo al casino di quella discoteca elena ha creduto volesse il suo numero. Che lo abbia creduto o voluto credere, cominciarono ad uscire ed Alessandro abbandonò presto l’incredulità per una passione per il sesso che non traspariva per sostituirla con l’apprezzamento per l’apertura mentale, e non solo, di lei.


Scienze delle Comunicazioni viene spesso ridefinita Scienze della Disoccupazione da chi la frequenta, Elena ha cominciato a lavorare da 2 anni come segretaria e la sua ambizione è sufficientemente bassa da permetterle di confermare le dicerie: quel pezzo di carta non le servirà mai a niente. Elena è una ragazza sveglia, mette da parte qualche soldo e con alcuni amici progetta di fondare una piccola società pubblicitaria; preoccupatasi fin da subito di relegare agli altri ogni lavoro creativo o di responsabilità si è sempre espressa chiaramente: “Io e i soldi li metto, ma fo lla segretaria e un mi cerhate per illavoro difficile” con quell’accento fiorentino che ha resistito tenace anche al corso di dizione per il teatro, ai tempi dei sogni di una ragazzina.

Elena geme, suda, si contorce in quel brivido di piacere cui ha sempre paura di abituarsi; non gli avrebbe dato nulla appena spogliato e raramente il riscontrare il proprio errore era stato così gratificante. Non era così convinta di continuare con questa storia, ed irrimediabilmente si ritrovava a fare di questi ragionamenti in piano amplesso, per quei pochi istanti prima che l’eccitazione partisse verso uno di quegli orgasmi di cui si era abituata a contentere l’aspetto acustico. Elena ha fatto il suo, lui le ansima sul collo, lei sa di avere qualche secondo prima di abbandonarsi verso un nuovo orgasmo e si congratula con se stessa per aver scovato un talento ben nasconsto, e subito eccolo là, il paragone con Alessandro, con il quale praticamente simula quello che ha imparato con Michele: ma prima che il paragone la conduca sulla via razionale del “lascialo perdere”, ecco che la concentrazione si sposta sul leggero scivolamento dei corpi sudati; lui non la bacia mai quando fanno sesso, scende a cercare il seno sinistro con la lingua mentre lei impazzisce concentrandosi sui suoi umori, su quanto sia bagnata e quanto facilmente le stia scivolando dentro e fuori.
I fari dell’auto di Alessandro in manovra illuminano il lampadario.

Elena sa di cosa si tratti ma rassicura Michele, vuole quell’orgasmo; lui non così tranquillo ed alza il ritmo, lei viene contorcendosi e spostando il comò sulla sinistra del letto, adesso un attimo di lucidità, sa che Alessandro potrebbe aver sentito un rumore ma vuole sembrare sicura. Soddisfatta della propria serata lo lascia sfilare e si cimenta in una di quelle fellatio da film porno che non aveva mai provato prima. Obiettivo: farlo venire subito. Lei mette in pratica ogni cosa mai vista e provata nell’arte del sesso orale, si masturba anche, perché sa che ecciterà la sua vittima: la sua eccitazione è tripla, gestisce se stessa ed il proprio orgasmo, gestisce l’uomo ed il suo orgasmo, sa che Ale li può scoprire. Quando sente gonfiarsi il membro di Michele sa cosa lui le sta dicendo ma non lo ascolta, continua con foga, un po’ è la curiosità, un po’ è l’eccitazione, un po’ sa che non perderà tempo a pulire. Lui si inarca in uno spasmo e sbatte la porta dell’armadio, lei non molla, lo vuole vedere soffrire per il suo orgasmo e non le importano i passi sulle scale, ci sono solo lei, Michele e quello strano sapore che sta andando giù mentre ancora lei non lo molla.

Elena sa che quelle sono le chiavi sulla cassapanca in cima alle scale e sta raccogliendo il più velocemente possibile i vestiti di Michele.

Alessandro sente che Elena sta facendo qualcosa e vede la luce accesa, è più sorpreso che non incuriosito ma accelera il passo.
Mancano pochi passi alla camera.
Michele si sta calando aggrappandosi alla pergola, hanno già provato, regge, ma è nudo, i vestiti glieli butterà lei ma deve finire di raccoglierli.
Alessandro ha la mano sulla maniglia e per un secondo valuta l’idea dello scherzone: “buh”, aprendo di scatto. Lascia perdere.
Elena vede abbassarsi la maniglia e lancia fuori dalla finestra quello che ha raccolto.
Palo. Una scarpa colpisce il davanzale e ricade nella camera. La porta è già socchiusa e il piede di Ale sta entrando.
Elena si butta a terra e con la maestria del più scafato degli interbase lancia fuori la scarpa sperando che non faccia rumore cadendo.
Alessandro la sorprende a terra, sudata, l’mp3 spento nelle orecchie e i pantaloni della tuta indossati di corsa. Non si meraviglia di trovarla in topless, è vanitosa e sa di avere un seno che molto si avvicina alla perfezione. Alessandro si è sempre eccitato molto a vederla fare ginnastica e si è sempre eccitato molto a vederla in topless, Elena lo sa, e sa che sarà sesso anche con lui.

Sono le 22 e la giornata nuvolosa ha introdotto una notte più che buia, Michele nel piazzale si riveste di fretta e un brivido gli sale lungo la schiena, gli arriva al collo e lui si aspetta che il terrore glielo spezzi. Si gira di scatto, tutte le finestre sul piazzale sono buie ma lui non si prende in giro, qualcuno lo sta fissando; si infila i pantaloni, trova le chiavi della moto che nasconde dietro il cantiere nell’ex fienile e raccoglie il resto delle sue cose nel maglione. Sente muovere il ghiaino, adesso ha paura, da dietro troppi angoli può saltare fuori il suo assalitore, non può attraversare il piazzale, sarebbe facilmente visibile dalla finestra di Elena, ma la sensazione di essere spiato non lo abbandona. Cerca con ansia di individuare una vecchina insonne o due giovani appartati in macchina, figure innocue, spera di darsi del coglione per essersi spaventato senza motivo. Niente.
Michele si avvia, non rasente al muro come logica avrebbe voluto, si scosta di un paio di metri al primo angolo, quando si alza il vento. I teloni e le corde del cantiere, le imposte, gli alberi; chiunque potrebbe avvicinarglisi alle spalle senza farsi sentire. Michele si volta di scatto e nel buio di una notte senza stelle una sagoma si dilegua. Non sa neanche se quella sagoma era un cespuglio, un telo, un animale, un assassino, un sonnambulo o se se l’è soltanto immaginata, ma adesso è terrorizzato, attraversa il piazzale di corsa, mette in moto senza prendere il casco o mettere via i vestiti ed un brivido ancora più raggelante del precedente lo blocca. Click. Cilecca. Non ha mai visto una pistola in vita sua ma nei film ha sentito quel rumore, non sa se è un colpo a vuoto, la scarrellata dell’arma, la sicura disinserita, cosa cazzo potrà mai saperne lui?
E’ terrorizzato, si volta lentamente, dovrà fare centoottanta gradi il suo sguardo; nel suo percorso incontra casette, portoni, finestre aperte e socchiuse, incontra quell’orribile porcospino di metallo dove la vicina di Elena immagina gli ospiti gradiscano pulirsi le scarpe, incontra le bici accatastate dei bambini dell’ultima famiglia arrivata, scopre la fine della fattoria e perde il senso della profondità: il bosco non sembra a 100 metri, ci si sente dentro, tormentato dal terrore. Quando si è girato del tutto eccola; la cosa di cui aveva più paura. Niente. Qualcuno si nasconde. Michele mette in moto di corsa, se ne fotte del rumore e degli accordi presi con Elena per spingere la moto spenta, il bicilindrico Ducati urla la propria natura, non si volta, ma sente su di sé quello sguardo.

A tre chilometri si ferma, una risata isterica lo aiuta a stemperare la tensione. Controlla ansioso di non aver perso niente. Manca il suo berretto da baseball. Adesso torna il terrore, Michele non vuole tornare indietro e si accontenta di credere che se anche lo dovesse trovare Alessandro, quello è un banalissimo cappellino blu, ne esistono milioni. Michele si riveste, mette il casco, ingrana la prima ed è in quel momento che sente freddo. I fari di un’auto scollinano e si dirigono verso di lui. Michele è paralizzato, non riesce a staccare la frizione e i fari che vede nello specchietto sinistro della sua Ducati sono sempre più vicini. Ci siamo, Michele è già rassegnato quando l’auto gli passa accanto ignorandolo. Si sente un idiote, un sospiro lungo un chilometro lo rilassa un po’, lascia la frizione, da gas e si dirige verso casa.

L’asfalto scorre veloce sotto la pancia della piccola Mini blu, il silenzio del caldo estivo della campagna toscana cozza contro il parabrezza che divide due mondi opposti. Stella tiene lo stero a palla e ascolta di quella musica commerciale che non ti aspetteresti mai da un’artista. Non si è mai descritta come persona particolarmente fredda ma si sente un po’ stupida questa volta ad essersi lasciata ferire così profondamente. Alla fine Michele è un uomo ed è normale, alla fine ciò che è stato è stato ma il passato si può cancellare, basta cancellarne il ricordo, e poi cancellare il ricordo dal futuro. Col passare dei chilometri l’asfalto si fa più nitido, granuloso, la piccola Mini sta tornando a velocità meno conflittuali con il codice della strada e con le abilità del pilota.
Parcheggia nel piazzale, spenge lo stereo, tira il freno a mano, spenge l’auto, toglie la cintura di sicurezza, esce, chiude, ed attiva l’allarme.

I polsi fanno male, la testa pulsa, le gambe sono deboli, sente un forte bruciore dal torace.
Riprende lentamente i sensi e si rende conto che qualcosa non va. La mente riparte dal soggiorno, dalla costrizione e dall’odore pungente. Lentamente riapre gli occhi, è freddo, ma sente bruciarsi, sente male, non capisce, caviglie e polsi le sono costretti, la schiena, nuda, appoggia su di una superficie metallica ed inclinata, la testa sta guardando il soffitto. La luce entra a lame, tagli non regolari, probabilmente definiti da una finestra rotta. Il soffitto è lontanissimo e non pare in buono stato di conservazione, quella pare una capriata. Mai capito un cazzo di architettura, ma le pare di essere in un capannone industriale di un centinaio di anni fa, una tabaccaia forse, o qualcosa di simile, o chi cazzo se ne frega, l’importante è capire perché, dove, come, quando. Alza lo sguardo e vede i polsi incatenati a catene che lasciano un gioco di pochissimi centimetri. Capisce che la tavola inclinata su cui è sdraiata è di metallo e di grandi dimensioni. Alzare il collo le provoca un fortissimo dolore al torace, che sente stranamente leggero, il viso si contrare in una smorfia di dolore. Le occorre del tempo per sentirsela di controllare cosa cazzo è successo. Alza il capo a guardare in basso, ormai ha capito di essere nuda e di avere anche i piedi bloccati, ha bisogno di qualche minuto per realizzare cosa sia successo. Due macchie di un rosso vivo bordate di un nero di sangue coagulato e polvere le ornano il torace, inchiodati in un pannello di legno poco distante i suoi seni. Urla di dolore, di paura, di disperazione, e perde nuovamente coscienza.

Stella ha imparato a cucire sul momento, e non dimostra una gran classe.

Apre gli occhi lentamente e questa volta però scatta, con il terrore dell’ultimo ricordo prima di addormentarsi. Vincolata cerca di alzarsi ed urla per il dolore, una testa bionda è china su di lei, e comincia ad implorare, sicura di essere al cospetto del suo salvatore.

Stella saluta. Sempre stata educata.

Basta l’espressione della bionda per gettarla nel panico: soccorrere un cazzo, è questa troia che mi ha legato qui.
Sente dolore, non è più in grado di capire da dove le arrivino i dolori, ma un’insopportabile sensazione di dolore e fortissimo fastidio le giunge dal bacino.
Vede un grosso ago e uno spago non particolarmente robusto ma decisamente sporco di rosso allungarsi sotto la mano della sua compagna. Le occorre qualche secondo per capire veramente cosa vuol dire subire un’infibulazione. Le urla di terrore e di morte del proprio io donna invadono l’intero capannone e forse non lo libereranno mai.
Supplica la propria carnefice di chiamare i soccorsi, di liberarla, almeno di fermarsi. Forse avrebbe potuto scegliere meglio le proprie suppliche.

Stella si ferma, contempla il proprio lavoro certa che non sia fatto ad opera d’arte ma che il messaggio sia chiaro.

L’ultima volta non c’era quel pannello che adesso lei nasconde quasi completamente con la propria sagoma. La bionda si alza con un sorriso sincero, controlla la propria opera, infibulazione e asportazione dei seni, guarda Elena e il sorriso si apre di più. Urlare, gridare, chiedere per quale cazzo di motivo stia succedendo tutto questo non produce alcun risultato. Quella troia fa un cenno con la mano, che cazzo vuole? Saluta? Dove cazzo vai stronza? Si sposta e va verso l’uscita del capannone, che in questo momento è la maggior fonte di illuminazione del magazzino.
Dagli insulti passa alle richieste di spiegazioni, poi alle suppliche, in quei 7 secondi non lascia niente di intentato e le urla la piegano in due. Il dolore, la fatica, la paura, la disperazione, Elena si sente crollare, implodere, riporta la testa dritta; e capisce.
Urla di paura come non pensava più di essere in grado di fare, e infatti non ce la fa, sviene di nuovo.
Si risveglia nella disperata rassegnazione di chi non ha più niente da essere. La luce che entra dalle finestre in alto è ormai rossa, e molto scura. Davanti a sé il pannello di legno che aveva solo intravisto prima. Un pannello di legno verticale, due piccole mensole sulla sua destra. Inchiodato alla parete il corpo di Michele, su di una mensola la testa, sull’altra il pene e i testicoli.
Il corpo decapitato, evirato e squarciato probabilmente con una motosega.

L’ululato di un lupo non molto lontano, il portellone del magazzino socchiuso, la speranza di essere salvata deve fare presto a lasciare il posto alla consapevolezza di avere poche ore per salutare se stessa.